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L’enorme scritta nel verde, con la parola «Dux», formata dai pini di Monte Giano, ad Antrodoco (Ri)

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L’enorme scritta nel verde, con la parola «Dux», formata dai pini di Monte Giano, ad Antrodoco (Ri)

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Fabio Isman

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Dopo la seconda guerra mondiale numerosi simboli del fascismo sono stati rimossi, ma altri permangono ancora, alcuni assai possenti. Sui monti di Antrodoco, in provincia di Rieti, un’icona degna della Land art domina la vallata del Velino: un’enorme scritta nel verde, con la parola «Dux», formata dai pini di Monte Giano, visibile da chilometri di distanza e perfino da Roma, se il tempo è bello, o quando la neve crea un forte contrasto.

È opera del 1939 della Scuola Allievi guardie forestali di Cittaducale. Nonostante gli incendi e le frane, in parte si legge ancora. Un antico omaggio, che la natura non ha cancellato. Un altro caso celebre e quasi simile è la splendida Gola del Furlo vicino ad Acqualagna (provincia di Pesaro-Urbino), un luogo di enormi bellezze naturalistiche, dove il duce si fermava in una locanda non soltanto per il tartufo locale, ma anche per riposarsi nei viaggi tra Roma e la sua Romagna, e dove già Vespasiano, nel punto più stretto, fece scavare un tunnel che ancora esiste.

Chi vi transita intravede, sulle pendici del monte Pietralata, un profilo orizzontale della testa di Mussolini creato nel 1936, anch’esso dalla Forestale, per volere del Comune di Fermignano e su idea dello scultore Oddo Aliventi, con scavi e muretti a secco. Il faccione «incriminato» è lungo 180 metri, ma al duce non piaceva: «Sembra, spiegava, che io stia dormendo», mentre è risaputo che, almeno secondo la propaganda ufficiale, lui non riposava mai, perché intento a vegliare sui destini d’Italia. L’hotel dove si fermava pubblicizza ancora la «camera doppia di Mussolini», con l’«originale percezione di emozioni d’altri tempi; ampio bagno con doccia in cristallo e finestra».

Per portare altri esempi, sull’Isola di Santo Stefano in Sardegna, in un’ex cava, resta un busto di granito alto tre metri che eterna Costanzo Ciano, eroe della «beffa di Buccari» dei Mas nel 1918, poi ministro e presidente della Camera, padre di Galeazzo (che a sua volta, avendone sposato la figlia Edda, era genero di Benito, suo ministro degli Esteri e venne fucilato alla schiena a Verona nel 1944).

È quanto sopravvive di una scultura di 13 metri di altezza prevista sulla cima di un mausoleo a Livorno (città di famiglia) progettato da Arturo Dazzi e ora in abbandono. I lavori per la statua iniziano nel 1941: vengono sbozzate le due parti del busto ancora esistenti, ma la caduta del fascismo nel luglio di due anni dopo lascia ogni cosa incompleta.

A Roma, invece, la maggiore reliquia è l’obelisco del Foro Italico, alto 36 metri e mezzo con la base che, incisa nel marmo di Carrara, reca la scritta «Mussolini dux». Trecento tonnellate di peso, dopo il viaggio via mare è l’ultimo grande trasporto sul Tevere: le immagini dell’Istituto Luce del 1932 ne mostrano tutta la complessità. Di recente due studiosi degli atenei di Groninga e Lovanio, Bettina Reitz-Joosse e Han Lamers, studiando i documenti d’archivio hanno ricostruito una sorta di magniloquente «messaggio ai posteri» voluto dal duce e ancora sepolto sotto la base del monolite. A scriverlo in latino è un professore universitario, Aurelio Giuseppe Amatucci. È in tre parti: la prima racconta la genesi del fascismo e parla di Mussolini come di una sorta d’imperatore o uomo della provvidenza; la seconda riguarda la gioventù fascista; la terza è dedicata alla nascita del Foro Italico, allora intitolato al reggitore dell’Italia.
 

Fabio Isman, 22 aprile 2021 | © Riproduzione riservata

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