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Matteo Bergamini
Leggi i suoi articoliCuriosamente, tra l’elenco delle Biennali globali regolarmente aggiornato sul sito universe.art ancora mancano, mentre scriviamo, due delle manifestazioni più attese di questo 2025: la Biennale di San Paolo e quella das Amazônias, rispettivamente la seconda più antica del mondo e l’ultima nata su territorio brasiliano.
Ancora si può credere che l’America del Sud continui a rappresentare un «a parte» rispetto alle dinamiche anglo ed eurocentriche?
In fin dei conti, non è una percezione campata in aria, anche rispetto agli ultimi sviluppi politici; nonostante lo scorso dicembre a Montevideo, capitale dell’Uruguay, il presidente brasiliano Lula da Silva con Ursula Von der Leyen, sua omologa alla Commissione Europea, abbiano annunciato un accordo per stimolare il commercio tra il blocco del Mercosur (Mercado común del Sur; Mercosul in portoghese) e l’Unione Europea (accordo bloccato da 25 anni), è altresì vero che ancora mancano molti passaggi perché il trattato venga firmato ed entri in vigore, specialmente perché la Francia, che ancora continua a essere uno dei Paesi con più potere contrattuale nello scacchiere economico del Vecchio Mondo, vedendo minacciata la propria produttività è la principale opponente.
Un gioco di pesi e misure, un «giocoforza»: un’immagine che si allinea bene al tema della 14ma edizione della Biennale del Mercosul, appunto, la cui apertura è prevista per il prossimo 25 marzo a Porto Alegre (capitale dello Stato brasiliano di Rio Grande do Sul), coinvolgendo 76 artisti provenienti tanto da territori latini, quanto da altri subcontinenti: India, Stati Uniti, Cina... Il titolo è decisamente curioso: «Estalo». Parola che non ha una vera e propria traduzione in italiano, può essere identificata come «scoppio» o «schiocco». Nello statement curatoriale, infatti, l’«estalo» ha tutto a che fare con il rumore che anticipa un movimento, definendo azioni la cui brevissima durata delinea, su tutte le scale, un cambiamento radicale: dal creare uno stato di attenzione con il suono atavico e rapido che si sviluppa dallo sfregamento di pollice e medio, alle scariche di energia che cambiano geografie, come avviene con i terremoti.
Il team curatoriale è espanso, capitanato da Raphael Fonseca (curatore del Dipartimento di Arte Latina moderna e contemporanea al Denver Art Museum, inserito anche nella Power 100 di «ArtReview» sia nel 2023 che nel 2024), accompagnato da Tiago Sant’Ana, Yina Jiménez Suriel e Fernanda Medeiros, con una grande attenzione al piano educativo, caratteristica della fruizione della cultura a queste latitudini, guidato da Andréa Hygino e Michele Ziegt, oltre che Anna Mattos e Marina Feldens per il programma pubblico. «Il sudore che un giorno scorreva su un corpo a causa della paura, diventa oggi sudore frutto di piacere, di calore, del coraggio e di proposizioni positive: questo è, in linea generale, il ritmo che desideriamo imprimere a questa edizione della Biennale del Mercosul», afferma il collettivo, anticipando la volontà di «artisticizzare» tutta la metropoli gaúcha.
A San Paolo, sotto la guida di Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, direttore della Haus der Kulturen der Welt (HKW) di Berlino, si aprirà la 36ma Biennale sotto il titolo letterario di «Not All Travellers Walk Roads. Of Humanity as Practice» (ovvero «Non tutti i viandanti percorrono strade. Sull’umanità come pratica»), preso dal verso di una poesia di Conceição Evaristo, una delle figure più luminose della letteratura brasiliana contemporanea, con una particolare attenzione alle questioni della diaspora africana e delle sue ripercussioni sull’attualità. Ancora una volta la letteratura soccorre il visivo, basti citare il recente Il latte dei sogni, titolo di un libro di Leonora Carrington e Faz escuro mas eu canto, poema di Thiago de Mello che accompagnarono rispettivamente la Biennale di Venezia 2022, curata da Cecilia Alemani, e quella di San Paolo del 2021, firmata dall’italiano Jacopo Crivelli Visconti. Anche in questo caso il team curatoriale è collettivo: con Ndikung ci saranno Alya Sebti, Anna Roberta Goetz e Thiago de Paula Souza (altro nome incluso nella lista dei powerful 2024 da «ArtReview»), oltre alla cocuratrice Keyna Eleison e alla consulente strategica Henriette Gallus: «In un momento in cui gli esseri umani sembrano aver nuovamente perso di vista cosa significhi essere umani, in un’epoca di crisi sociopolitiche, economiche e ambientali aggravate in tutto il mondo, è urgente invitare artisti, studiosi, attivisti e altri operatori culturali di una vasta gamma di discipline a unirsi a noi nel ripensare che cosa significa umanità», è l’incipit teorico.

Noemi Perez, opera esposta alla prima edizione della Bienal das Amazônias, «Bubuia» Foto: Nailana Thiely/ Acervo Bienal das Amazônias
E se la lista degli artisti ad oggi non è stata resa nota, possiamo immaginare la costituzione della manifestazione rispetto ai tre assi tematici che prenderanno corpo al Padiglione Matarazzo del Parque Ibirapuera, a partire dal 6 settembre: insieme ai «viandanti», infatti, si affronterà il tema delle barriere e dei confini delle nostre società (ispirato dalla poesia Une conscience en fleur pour autrui dell’haitiano René Depestre), mentre il terzo momento sarà dedicato agli spazi di incontro e a una riflessione sul colonialismo e le strutture di potere. In questo caso l’ispirazione arriva dal movimento musicale Manguebeat, nato a Recife, nel Nord Est del Paese, all’inizio degli anni Novanta, e dal suo manifesto «Caranguejos com Cérebro» (Granchi col cervello), inteso come una rappresentazione del cosiddetto «cervello sociale collettivo». Insomma, è abbastanza intuibile una luminosa ispirazione alla documenta dei ruangrupa del 2022, con la rivendicazione di tutte le differenze del mondo.
Potrebbe essere sorprendente, invece, la seconda edizione della Bienal das Amazônias che, speculare al sistema geoeconomico del Mercosul, abbraccia invece il sistema idrografico degli Stati nati tra la foresta pluviale più grande del mondo, e con esso tutte le sue peculiarità sociali e culturali. A capo della manifestazione, che si aprirà nella sede di Belém do Pará nella seconda metà dell’anno, sarà l’ecuadoregna Manuela Moscoso, direttrice a New York del centro non profit CARA, Center for Art, Research and Alliances e un curriculum internazionale cominciato con studi al Bard College e alla Saint Martin, e passato per la curatela del Museu Tamayo, a Città del Messico, e della Biennale di Liverpool 2021. Vedremo se la scelta del progetto di Moscoso («il cui lavoro è un catalizzatore di dibattiti su temi rilevanti della contemporaneità», come afferma l’ideatrice e presidente della Biennale, Lívia Condurú), aggiungerà linfa a «Bubuia», titolo della prima e indimenticabile edizione che aveva messo in scena, tra gli altri, i progetti di Alvaro Barrington, artista già rappresentato da Mendes Wood, della mitica Anna Bella Geiger, di Aycoobo, Carmézia Emiliano e Xadalu Tupã Jekupé (tutti poi protagonisti nel 2024 della Biennale veneziana di Adriano Pedrosa), oltre ad altri nomi noti come Claudia Andujar, Denilson Baniwa, Elza Lima e Glicéria Tupinambá (che ha rappresentato il Brasile a «Stranieri Ovunque»).
Poco più a nord, dal 25 novembre, sarà la volta della Bienal de Arte Paiz, diffusa tra Città del Guatemala e Antigua, il cui curatore è l’italiano Eugenio Viola, oggi direttore del Museo de Arte Moderno di Bogotà, in Colombia. Sotto il titolo «L’albero del mondo», la Bienal si situerà in una dimensione teorica decisamente vicina agli studi di genere, all’ecosofia e all’attenzione per le culture altre (seppure non tanto quanto promettono da questa parte del globo, in Norvegia, dove ad esempio la 13ma edizione della Biennale MOMENTUM vuole interagire con mondi umani, non umani e più che umani...). Afferma Viola: «“L’albero del mondo” trae ispirazione dalla densità simbolica associata all’“Albero Sacro della Vita”, un “mito archetipo” presente in diverse cosmogonie di culture antiche. Oggi, la metafora dell’Albero del Mondo si erge come un simbolo universale di interconnessione globale, sfidando le nozioni tradizionali di spazio e tempo. Inoltre, l’albero simboleggia una struttura lineare della conoscenza mentre, al contrario, il concetto botanico-filosofico di “rizoma”, descritto da Deleuze e Guattari, rappresenta un sistema non lineare di connessioni, privo di un’autorità centrale. Questa struttura rizomatica riflette quella del web, dove interazioni dinamiche generano percorsi molteplici, e rispecchia la fluidità e la natura entropica della conoscenza e della comunicazione in un presente segnato dalla rivoluzione digitale e dalle frontiere inquiete dell’Intelligenza Artificiale. In questo mondo sempre più interconnesso ma al contempo frammentato, “L’albero del mondo” aspira a promuovere una maggiore comprensione e connessione tra le persone. Per questo motivo, la mostra presenterà artisti provenienti da diversi contesti e generazioni di tutti e cinque i continenti, dando voce alle comunità indigene, aborigene eFirst Nations, abbracciando diverse sessualità e generi». Ma non è finita, perché Viola è anche tra i membri del comitato scientifico della prima edizione della Biennale di Bogotà, BOG25, la cui apertura è prevista per il prossimo 20 settembre. Anche in questo caso una curatela a tre, composta da: María Wills, storica dell’arte e curatrice; Jaime Cerón, ricercatore, critico e curatore indipendente; Elkin Rubiano, teorico dell’arte e architettura.
Insomma, se lo spazio dell’«a parte» per certi versi resta ancora sconosciuto agli occhi eurocentrici, vale la pena rimarcare che a sud dell’arte, indipendentemente dagli avvenimenti nostrani, le pedine si muovono veloci e la voglia e i finanziamenti per creare un mondo culturale «nuovissimo» sono all’ordine del giorno. D’altronde, come ha rimarcato proprio a Bogotà José Ignacio Roca, consulente curatoriale della BOG25, «le biennali sono spazi di scambio bilaterale: danno visibilità nazionale e internazionale agli artisti e ai player locali, mostrando al pubblico ciò che sta accadendo globalmente. Le città con le biennali si contraddistinguono per la grande vitalità delle loro scene artistiche, si posizionano sulla mappa culturale della loro regione e, col tempo, creano un potente archivio visuale per i loro cittadini». Costruire immaginari è un work in progress.

Gustavo Caboco, particolare dell’opera esposta alla prima edizione della Bienal das Amazônias, «Bubuia». Foto Nailana Thiely/ Acervo Bienal das Amazônias
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