Tra le Alpi svizzere, non troppo lontano dal confine con l’Italia, è possibile immergersi nel mondo di Tapta, ricostruito fedelmente in occasione della prima retrospettiva fuori dal Belgio. All’interno del Muzeum Susch, dal 20 luglio al 3 novembre sarà allestita, a cura di Liesbeth Decan, la mostra «Tapta: Flexible Forms», che ripercorre l’attività dell’artista a partire dagli anni Sessanta.
Tapta (1926-97), pseudonimo di Maria Wierusz-Kowalska (già Maria Irena Boyé), nacque in Polonia, ma si trasferì in Belgio assieme al marito nel 1944, dopo aver preso parte alla Rivolta di Varsavia. A Bruxelles, presso l’École Nationale Supérieure des Arts Visuels de La Cambre, ebbe l’opportunità di studiare l’arte della tessitura, materiale che diverrà in un secondo momento protagonista delle sue opere. Tra il 1950 e il 1960 i coniugi si trasferirono nel Congo Belga (oggi Repubblica Democratica del Congo), per poi tornare nella città che diede loro asilo politico e, per quanto riguarda Tapta, concludere la propria carriera in veste di docente a La Cambre (Ann Veronica Janssens, Monica Droste e Marie-Jo Lafontaine, tra le altre, sono state sue allieve).
Il percorso espositivo, prevalentemente cronologico, suddivide il lavoro dell’artista polacca in due macroperiodi: il primo, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, incentrato sull’uso del tessuto, il secondo, sino ai primi anni Novanta, focalizzato sul neoprene, una gomma sintetica di colore nero. In entrambi i casi, la ricerca di Tapta è orientata a rispettare la flessibilità dei materiali, fondendola nel proprio estro. In una fotografia d’archivio è possibile scorgere l’artista tra gli elementi di «Formes pour un espace souple» (1974), environment allestito al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles (ora Bozar) nel 1975: una scultura percorribile composta da corde sospese annodate a spirale. Nel museo svizzero ne è proposta oggi una replica, per preservare l’originale ormai fragile, indispensabile per far comprendere appieno allo spettatore l’intimo rapporto tra Tapta e la sua arte, con la possibilità di viverlo in prima persona. La sua attenzione nei confronti del pubblico diventa però centrale negli anni delle opere in neoprene: le larghe superfici, talvolta connesse tra loro per mezzo di barre di metallo e bulloni, altre volte tramite cerniere, sono soggette alla volontà del visitatore, che da mero agente passivo diventa personaggio attivo in grado di cambiarne forma e posizioni.
Contemporaneamente, la mostra «Běla Kolářová & Emila Medková: Where No One Looked Before», anch’essa fruibile dal 20 luglio, si inserisce nel programma di esposizioni e ricerca che il Muzeum Susch intende promuovere alla riscoperta delle fotografe del XX secolo, con l’obiettivo di sottolineare l’importanza del contributo femminile in una storia troppo spesso governata da uomini.