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La sala Sironi della casa museo Boschi Di Stefano a Milano

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L’importanza di avere 70 anni

Come evitare l’arbitrio del vincolo collezionistico

Fabrizio Lemme

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La dichiarazione dell’interesse storico e artistico particolarmente importante (nel gergo la notifica), prevista negli artt. 10/3 e 13 del D.Lgs. 42/04, pur non risolvendosi in un vincolo di inalienabilità comporta severi effetti sul valore di realizzo del bene culturale che ne abbia formato oggetto. Infatti, da essa discende:

1. l’assoluta inesportabilità del bene (art. 65/1 cit. D.Lgs.);
2. la necessità di denunzia degli «atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o, limitatamente ai beni mobili, la detenzione di beni culturali» (art. 59);
3. l’alienabilità condizionata all’autorizzazione dell’organo di tutela (art. 60), che può essere espressa anche con il silenzio protratto per oltre sessanta giorni (art. 61/1);
4. la possibilità che tale organo eserciti il diritto di prelazione, vale a dire l’ablazione allo Stato del bene oggetto di trasferimento, alle stesse condizioni offerte da parte del potenziale acquirente.

Questi oneri e questi adempimenti impediscono, in sostanza, un’alienazione «brevi manu», altrimenti pienamente possibile per i beni culturali mobili (art. 1153 C.c.) e, con la comunicazione allo Stato, anche l’esigenza di rendere palese non solo il nome del nuovo acquirente, ma anche il prezzo da lui pagato: cosa sgradita anche per gli inevitabili effetti negativi fiscali. Se questo è l’effetto depressivo della dichiarazione d’interesse culturale, ancora più grave e mortificante è il vincolo collezionistico: esso, contemplato nell’art. 10/3 lett. e) cit. D.Lgs., prevede:

1. come presupposto, che la collezione, «per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica-storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivesta come complesso un eccezionale interesse»;
2. come effetto, l’assoluta indivisibilità, ossia la possibilità di alienazione della collezione solo in blocco, senza alcuna possibilità di smembramento o di separazione.

Quindi, gli effetti mortificatori del prezzo sono onerosissimi: chi è disposto ad acquistare una collezione da altri formata, espressione del gusto di un altro? È pertanto necessario esaminare con attenzione l’art. 10/3 lett. e) e le norme a esso collegate, per limitare l’arbitrio altrimenti inevitabile: l’amministrazione potrebbe, a suo libito, vincolare come collezione un insieme di beni culturali appartenenti a un privato, affermandone del tutto surrettiziamente la valenza storico artistica.

Partiamo dalla prima norma, ossia l’art. 10/3 lett. e). I presupposti sono in essa assai bene specificati: la collezione deve avere alle spalle una storia (che si esprime nella «tradizione» e nella «fama») oppure, costituire un alto raggiungimento storico-artistico. I due requisiti sono alternativi? Ci si chiede se anche al riguardo trovino applicazione quei criteri volti a circoscrivere l’arbitrio della Pubblica Amministrazione indicati nel recente D.M. 6.12.2017 n. 517. Io direi senz’altro di sì: infatti, il citato D.M., tra i criteri sintomatici per l’imposizione del vincolo, indica anche (punto 4) «l’appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale» e (punto 5) «la testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo».

Se viene riconosciuta tale equiparazione (e le norme, a mio avviso, non lasciano dubbi al riguardo), l’alto raggiungimento storico artistico, la cui affermazione costituisce il massimo della discrezionalità, di per sé solo non basta e va comunque accompagnato dalla storia e dalla fama della collezione. Infatti per l’imposizione del vincolo il D.M. prima richiamato richiede che «la qualità artistica del bene» non sia di per sé sola sufficiente a giustificare un provvedimento di tutela, per la cui pronuncia deve concorrere almeno un altro dei sei criteri sintomatici ivi indicati. Si pone allora un’ulteriore domanda, strettamente connessa alla prima: da quanti anni deve essere costituita la collezione perché possa dirsi raggiunta una sua storia significativa?

Al riguardo, la risposta che verrebbe immediata è data dal ricorso al termine di settant’anni: vale a dire, solo una collezione che risalga ad almeno settant’anni potrebbe ritenersi avere acquisito una fama e una storia particolarmente significative. Un indice normativo al riguardo potrebbe essere il comma V dell’art. 10 prima citato, che, parlando delle «cose indicate al comma I e al comma III, lett. a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settant’anni», sembrerebbe far riferimento alla collezione nel suo complesso e non alle singole opere che la costituiscono.

L’affermazione che precede potrebbe essere posta in discussione e non si può negare che una collezione, pur se di recente formazione, può acquistare rapidamente fama e divulgazione ampie, anche per effetto di mostre che abbiano precocemente contribuito a storicizzarla. In ogni caso, se la nostra affermazione non viene accolta, per dare un significato al comma V, occorre quantomeno che tutte le opere inserite nella collezione abbiano oltre settant’anni: diversamente, la norma sarebbe soggetta a una interpretazione abrogante. 

Traendo delle conclusioni si può senz’altro affermare che delle due l’una: o la collezione deve avere, alle spalle, una storia di settant’anni o gli oggetti che la compongono debbono avere, ciascuno, una storia di settant’anni. Infatti, nell’interpretazione di disposizioni che pongono vincoli e limitazioni non indifferenti al diritto di proprietà privata, si impone, in coerenza con l’art. 42/2 Cost., non solo la riserva di legge, ma anche una sua interpretazione in senso più benigno per il privato che ne è onerato (arg. ex art. 1371 c.c.). Come è appunto quella da noi proposta.
 

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Fabrizio Lemme, 20 marzo 2021 | © Riproduzione riservata

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