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El Anatsui nel suo studio insieme agli assistenti. Foto Ofoe Amegavie

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El Anatsui nel suo studio insieme agli assistenti. Foto Ofoe Amegavie

Lo studio-alveare di El Anatsui in Ghana, flessibile ed espandibile come i suoi arazzi

Abbiamo incontrato l’artista, Leone d’Oro alla Biennale dei Venezia del 2015, nel suo nuovo ambiente di lavoro a poche decine di chilometri da Accra. In autunno lo attende la Hyundai Commission nella Turbine Hall della Tate

Maurita Cardone

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A qualche decina di chilometri da Accra, superato il traffico che assedia la capitale del Ghana, si raggiunge Tema, una cittadina portuale affacciata sul Golfo di Guinea. El Anatsui (Anyako, 1944), Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2015,  ha scelto questo luogo per creare il grande studio che segna il suo ritorno nella terra natia, dopo anni trascorsi in Nigeria. Tra anonimi capannoni e palazzi di nuova costruzione, l’edificio si mimetizza con il paesaggio, ma, entrando nell’ampio cortile, troviamo subito il segno che siamo nel posto giusto: un ragazzo siede su una gigantesca maglia metallica e lavora meticolosamente a testa china.

Un attimo dopo ci accoglie El Anatsui, borsello a tracolla, camicia e baschetto dal pattern elaborato e con voce calma ci fa entrare nel vestibolo da cui si diramano i diversi ambienti di questo ampio edificio realizzato appena un anno fa: «Lo spazio condiziona la creatività e le sue possibilità. All’inizio della mia carriera, in Nigeria, lavoravo in piccole aule scolastiche che in effetti avevano un’influenza sulla mia immaginazione. Qui, dal momento che le mie opere diventano sempre più grandi, ho voluto creare uno spazio che mi consentisse di lavorare su larga scala».

Dal punto di osservazione privilegiato di un piano rialzato progettato proprio per poter abbracciare le opere nella loro interezza, vediamo distendersi ai nostri piedi un’immensa superficie realizzata con i tappi di bottiglia, che l’artista assembla in arazzi, dall’aspetto prezioso ma di umili origini. «Questo è solo un quarto dell’opera finita, nemmeno questo spazio è sufficiente per i lavori che sto producendo, spiega l’artista ridendo. Quando sarà completata, sarà l’opera più grande da me realizzata».

Gli assistenti impegnati nello studio, dieci artigiani e due artisti, si muovono lungo la superficie, calpestandola con indifferenza. El Anatsui non considera i suoi lavori sacri o intoccabili, al contrario: i suoi colorati e ricchi arazzi sono pensati per essere flessibili e leggeri: «Li puoi piegare e dispiegare, sono facili da trasportare e mi piace questa loro natura nomadica», commenta, aggiungendo che il vantaggio di opere così leggere e facilmente imballabili è anche quello di produrre meno CO2 nel trasporto.

Queste opere sono facili da riassemblare, alterare o espandere e l’artista incoraggia i curatori a modificare i suoi lavori in base alle esigenze specifiche di ogni installazione. «Mi interessa che spazi e materiali non condizionino la flessibilità dell’artista. Il lavoro non è mai finito, ma voglio che la gente possa giocarci e farsi coinvolgere, così che possano finirlo loro stessi. Io metto a disposizione gli strumenti e i tappi permettono questa flessibilità. Per questo creo lavori che sono come tessuti, ovvero una delle cose più versatili: possono essere esposti in forme diverse e diventare cose diverse».

Come le sue opere, anche lo studio di El Anatsui è pensato per essere flessibile ed espandibile. Composto da una serie di ampi ambienti neutri, lo spazio è stato progettato dall’artista con una pianta esagonale, in modo da poter essere ampliato in tutte le direzioni seguendo una struttura ad alveare. «Le api sono delle grandi lavoratrici, dice, e sono un’ispirazione per il mio lavoro». L’idea è di continuare ad estenderlo assecondando le esigenze di opere che stanno diventando sempre più monumentali e che allo stesso tempo conservano una disarmante essenzialità e artigianalità.

La scelta del materiale non è solo dettata dalla forte presenza di questi tappi in Africa, ma ha anche un significato storico e culturale: «I liquori erano utilizzati dagli europei come moneta di scambio con le popolazioni africane e l’alcol divenne uno dei beni utilizzati nella tratta degli schiavi. Poi, nelle comunità delle Indie Occidentali si produceva alcol che veniva trasportato in Europa e da lì tornava in Africa. Quindi in qualche modo le bottiglie di liquore rappresentano un legame tra Africa, Europa e Stati Uniti e raccontano una sociologia della comunità».

A 78 anni, El Anatsui continua a creare un’arte intrisa di vita e che, come la vita, è in continua trasformazione.

Il prossimo autunno (10 ottobre 2023-14 aprile 2024) El Anatsui realizzerà per la Hyundai Commission un’installazione nella Turbine Hall della Tate di Londra.
 

El Anatsui nel suo studio. Foto di Ofoe Amegavie

El Anatsui nel suo studio. Foto di Ofoe Amegavie

Maurita Cardone, 22 febbraio 2023 | © Riproduzione riservata

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