Marilena Borriello
Leggi i suoi articoliNel corso degli ultimi sessant’anni, oltre ai linguaggi artistici anche le esposizioni d’arte hanno subito notevoli trasformazioni, influenzando la loro concezione, ideazione ed esperienza. Il fulcro della sfida rimane lo sguardo dell’osservatore, nell’accezione foucaultiana del termine, ossia il modo di assimilare e integrare nel proprio pensiero le complesse dinamiche sociali e i sistemi di potere. Non è un mistero che le mostre d’arte rappresentino i luoghi per eccellenza in cui i significati si costruiscono, si diffondono e talvolta si decostruiscono, anche con l’intento di mettere in discussione le istituzioni museali stesse.
Il progetto espositivo «Carte Blanche», ideato da Marc-Olivier Wahler, direttore del Musée d’art et d’histoire (Mah) di Ginevra, si inserisce in questo contesto di riflessione critica. Esso si propone di sfruttare gli spazi e le collezioni del museo come stimolo per la creazione di nuovi discorsi, andando oltre le interpretazioni consolidate degli eventi storici e sfidando le narrazioni ufficiali. Come suggerisce il titolo stesso, «carta bianca», l’iniziativa consiste nel concedere a rinomati artisti internazionali la totale libertà di realizzare progetti artistici specifici per il luogo, interagendo con la vasta collezione del Mah.
Dopo Jakob Lena Knebel nel 2021, Jean-Hubert Martin nel 2022 e Ugo Rondinone nel 2023, Wim Delvoye (Wervik, Belgio, 1965) è stato invitato a inserirsi temporaneamente nelle 15 sale che percorrono il perimetro del primo piano dell’edificio storico. Qui ha realizzato un intervento artistico che non solo dialoga con la collezione permanente del Mah, ma include anche elementi della sua personale raccolta d’arte.
«L’Ordre des Choses», il titolo del progetto inaugurato lo scorso 26 gennaio e visibile fino al 26 giugno, esplicita gli intenti di Delvoye, che mira a trasformare lo sguardo dell’osservatore attraverso un atto di decontestualizzazione: gli oggetti prelevati dal loro contesto originario abbandonano la loro logica iniziale e si aprono a una nuova interpretazione. Per raggiungere tale risultato, l’artista ha stabilito lungo l’intero percorso installativo diversi momenti di dialogo con vari artisti, tra cui Antonio Canova, del quale presenta una reinterpretazione personale del gruppo scultoreo «Venere e Adone», Jean Tinguely, Picasso, Giovan Battista Piranesi, Panamarenko e Fischli e Weiss.
Attraverso questo confronto, Delvoye intraprende una sottile manipolazione semantica e un rovesciamento delle gerarchie tradizionali, incoraggiando lo spettatore a riflettere sulla fluidità delle interconnessioni tra gli elementi presenti nello spazio espositivo del museo. L’artista mette in discussione le distinzioni convenzionali principalmente mescolando oggetti artistici e non, provenienti dalla cultura alta e bassa, che rivelano una certa prossimità formale. In una delle sale a sua disposizione, per esempio, Delvoye riunisce orologi meccanici, ingranaggi di vario tipo, la scultura meccanica di Tinguely «Si c’est noir, je m’appelle Jean» (1960) e una parte della sua opera «Cloaca» (2000), evidenziandone la somiglianza e suscitando riflessioni sull’inerzia meccanica, la misurazione del tempo e l’interazione tra macchine e corpi umani. La deviazione semantica, che implica un’intenzionale alterazione del significato, emerge su due livelli: quello concettuale e quello spaziale. L’obiettivo sembra essere quello di trasformare questi oggetti dal consolidato status di opere d’arte e documenti storici a entità dotate di una propria vitalità intrinseca.
Attraverso la riduzione delle convenzionali differenze di grado e categoria che normalmente le separano, Delvoye cerca di creare nuove connessioni e di esplorare concetti legati al processo creativo. Non a caso, l’artista stabilisce un collegamento tra il film sperimentale «Der Lauf Der Dinge» (1987) di Fischli e Weiss, un’ironica e ingegnosa reazione a catena i cui ingranaggi sono oggetti comuni, prossimi a diventare rifiuti, i visionari schizzi di Panamarenko e una versione da viaggio della sua «Cloaca». Come nel film, dove gli oggetti prendono vita e interagiscono in modo indipendente, anche nel processo creativo, ci sono elementi di imprevedibilità e una sorta di vitalità propria. La macchina «Cloaca», che simula il processo digestivo umano, diventa un’istanza di questo concetto, mostrando come anche un processo biologico complesso possa essere riprodotto e analizzato attraverso una serie di azioni meccaniche.
Il processo di riduzione di differenze appare evidente anche nel confronto tra le stele dell’antico Egitto e i bassorilievi contemporanei tratti da videogiochi come «Counter Strike» o «Fortnite». Questa combinazione invita a riflettere sulla complessa relazione tra passato e presente, sulla continuità e la discontinuità della cultura umana nel corso del tempo. L’inclusione dei simboli di eternità dell’antico Egitto accanto alle immagini di distruzione e violenza dei videogiochi contemporanei solleva interrogativi su come la tecnologia e la cultura influenzino e modifichino la nostra percezione del mondo e dei valori umani.
Gli oggetti esposti giocano un ruolo attivo, invitando lo spettatore a esplorare varie prospettive e relazioni spaziali, e a indagare le molteplici interpretazioni e connessioni tra essi e l’ambiente circostante. In una delle sale coinvolte nell’intervento artistico, Delvoye crea un’atmosfera quasi completamente oscura, in cui soltanto una tenue luce perimetrale dal soffitto illumina gli antichi petardi disposti su piedistalli, le sezioni di travi adagiate sulla parete e i suoi iconici pneumatici incisi, posizionati al centro dello spazio come moderni simulacri. Insieme sembrano evocare le convenzioni tradizionali di allestimento, incoraggiando il visitatore a rivalutare il modo di percepire e interpretare gli oggetti che lo circondano.
L’intero progetto è concepito come un percorso per contrastare la rigidità del pensiero. Piuttosto che imporre un messaggio univoco, l’azione cumulativa di Delvoye mira a evocare una percezione, stimolando associazioni mentali dinamiche e mai definitive, come sembra suggerire l’installazione finale (o la prima, a seconda dell’accesso alla mostra). Un circuito di biglie in movimento scorre tra riproduzioni di opere storiche, tra cui «Le Carceri» di Piranesi (1744-47), «Lo scultore» (1931) di Picasso e i «Fiori» (1970) di Andy Warhol. Il dinamismo vorticoso e il rumore metallico assordante delle biglie aggiungono un’ulteriore dimensione sensoriale all’intervento dell’artista. Sebbene l’obiettivo di creare un corto circuito nella percezione dell’osservatore sia stato raggiunto, l’installazione rischia di esplicitare in modo enfatico ciò che è stato accennato e suggerito con maggiore impatto nelle sale precedenti.
Con «L’Ordre des Choses», Delvoye mette alla prova l’osservatore, privandolo della possibilità di possedere completamente l’oggetto della sua attenzione e di trovare una comprensione definitiva e soddisfacente. L’intervento dell’artista conferma «Carte Blanche» come un progetto non facile ma coraggioso, in grado di proporre prospettive insolite. Tuttavia, la sfida sarà tenere a mente che l’osservatore, un’entità astratta e impersonale costantemente sfidata e sbeffeggiata nel corso degli anni dagli artisti, nel frattempo si è evoluta e ha imparato la lezione, diventando capace di distinguere la differenza tra pura spettacolarità e un messaggio autentico.
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