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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliNel 1994 Umberto Allemandi chiese a Sandro Dorna, raffinato collezionista, di pubblicare una raccolta di frasi celebri di artisti, filosofi, scrittori, poeti, critici e quanti altri avessero detto o scritto qualcosa di interessante, per rispondere a un’ambiziosa domanda: «Che cos’è l’arte?». Ma nei 22 anni trascorsi da allora il mondo dell’arte ha conosciuto una delle più radicali trasformazioni di tutti i tempi. Una metamorfosi che non ha riguardato più di tanto le forme dell’arte contemporanea, se si escludono l’ampia diffusione delle nuove tecnologie e l’irruzione del web nella prassi degli artisti. A mutare sono stati la circolazione del pubblico e la circuitazione dell’arte, complici le cadute delle frontiere, a partire dalla barriera tra Ovest ed Est europeo. La globalizzazione ha enormemente sviluppato il mercato e il circuito espositivo (si pensi alla crescita esponenziale del numero di biennali d’arte contemporanea).
Le nuove esigenze dei musei, dettate spesso dalla moltiplicazione del pubblico e dalla nascita di nuovi mercati, hanno portato ad ampliamenti e allo sviluppo di filiali in tutto il mondo delle superpotenze museali (il Guggenheim, il Louvre) e alla costruzione di nuove sedi e istituzioni, in un panorama geografico esteso al mondo arabo e alle potenze economiche emergenti, come la Cina e l’India. Sono, contemporaneamente, «saltate» o scomparse alcune funzioni: fiere e musei spesso anticipano nella proposta di novità le gallerie. I consiglieri dei collezionisti non sono più i galleristi, ma gli art consultant, mentre i curatori, sempre più simili a project manager, non fanno più concorrenza ai critici (quasi estinti) quanto agli stessi art consultant. I direttori di museo, impegnati ad apprendere le strategie di marketing, non hanno più tempo per studiare. I collezionisti, dal canto loro, scelgono su internet i «titoli» su cui puntare, magari consigliati dagli hedge fund manager e i più munifici con le loro fondazioni fanno concorrenza ai musei. Sul fronte dell’arte antica, la mostra (nei casi migliori) è diventata una conditio sine qua non per lo sviluppo degli studi e della loro pubblicazione.
In poco più di vent’anni è stata letteralmente sconvolta, a beneficio di un «consumo» sempre più rapido, l’architettura del sistema dell’arte così come la conoscevamo, e che è durata poco più di un secolo: nella storia, il classico «espace d’un matin». Intanto, i viaggi aerei low cost, oltre alle frontiere aperte, hanno facilitato gli spostamenti di masse turistiche mai viste verso le città d’arte e i siti archeologici, mentre l’arte contemporanea è definitivamente uscita dalla nicchia nella quale era nata e si era sviluppata per raggiungere una popolarità mai conosciuta anche in termini collezionistici: sul mercato, i prezzi hanno sovvertito i valori, per cui Jeff Koons può costare più di Rembrandt. In questo panorama, probabilmente la popolazione mondiale di individui che hanno scelto l’arte come professione non è mai stata numerosa come oggi.
Ma tutto «’sto parlare d’arte», come avrebbe detto preoccupato Tony Soprano, tutto ’sto andar per mostre e comprare arte, una piramide su cui dominano precisi, per quanto instabili, obiettivi economici, non sembra aver prodotto il migliore dei mondi possibili. Si direbbe anzi che questo «Rinascimento globalizzato» abbia lo stesso sfondo sociale e politico del Rinascimento cinquecentesco o del Secolo d’Oro, scenari tormentati da conflitti, carestie, malattie, guerre di religione, crescenti tensioni sociali oggi aggravate dalle migrazioni e, nei centri urbani, dalla sempre più marcata forbice tra ricchezza e povertà.
Si ha la sensazione di vivere una fase di regressione, tra fondamentalismi di ritorno, iconoclastia, neoschiavismo e costruzione, reale o invocata, di nuovi muri. E allora nella babele (e contemporaneamente nell’appiattimento) dei linguaggi artistici d’oggi, nel bailamme scatenato da decine di milioni di visitatori di mostre e musei, nelle follie del mercato, sarebbe probabilmente inattuale chiedersi che cosa sia l’arte oggi. Piuttosto, viene spontaneo chiedersi se e a che cosa serva l’arte.
Una domanda epocale; non a caso «The Art Newspaper», la più affermata fonte di notizie in lingua inglese nel mondo dell’arte, filiazione e partner di «Il Giornale dell’Arte», in omaggio al fatto che l’arte, notoriamente, non dà risposte ma pone interrogativi, ha scelto questo tema per i suoi 25 anni di attività. Lo ha fatto in una serie di incontri, iniziati nel 2015, a Londra, al British Museum e all’Ermitage di San Pietroburgo e, nel maggio scorso al MoMA di New York.
Il 6 ottobre sarà la volta dei Musei Vaticani nella sala degli arazzi di Raffaello, su invito del direttore Antonio Paolucci, che, come i suoi omologhi negli incontri organizzati negli altri musei, sarà il giudice in un processo in cui quattro testimoni «laici» confesseranno il loro uso dell’arte, testimoni le cui affermazioni saranno controbattute da un malizioso «pubblico ministero». In queste pagine pubblichiamo alcuni estratti dalle arringhe e altre «sentenze» emesse dagli addetti ai lavori.
I nostri lettori, dal canto loro, sono invitati a partecipare a un sondaggio, compilando e inviandoci il modulo qui in basso o direttamente sul nostro sito internet www. ilgiornaledellarte.com. Le risposte possono, anzi devono emergere dall’esperienza diretta: gli Uffizi o il Louvre sovraffollati lasciano ancora spazio alla contemplazione? È vero, come sosteneva il curatore Okwui Enwezor quando nel 2002 diresse dOCUMENTA, che la diffusione dell’arte contemporanea la sta rendendo un efficacissimo canale di comunicazione, utile a veicolare messaggi non omologati all’informazione emessa dalle fonti ufficiali? L’arte può davvero assolvere la funzione di bene economicamente durevole?
Ha più senso creare opere per scatenare pure esperienze estetiche o per produrre energia pulita, come lo scultore francese Michel Leclercq? Se l’arte è puro consumo turistico può ancora essere considerata fonte di cultura? Se l’arte «non serve a nulla», può avere una sua funzione nell’appagare l’insopprimibile «esigenza del superfluo», come asseriva lo storico dell’arte Roger Fry? Lo sviluppo del sistema dell’arte contribuisce in maniera significativa alla crescita di posti di lavoro? L’arte può essere un disintossicante, un filtro, rispetto alla proliferazione di pessime immagini che ci assediano nel dominante analfabetismo visivo?
Lo studio dell’arte e l’immaginazione degli artisti possono realmente contribuire allo sviluppo di una conoscenza pluridisciplinare, a fianco di scienziati, antropologi, filosofi, scrittori ecc, secondo il modello curatoriale collettivo ormai diffuso in molte mostre internazionali.
L’interdisciplinarità dei «testimoni» chiamati a deporre ha del resto caratterizzato i citati «processi» organizzati da «The Art Newspaper»: una scelta che, in parte, è già una risposta. Solo uscendo da una bolla di iperspecializzazione, metalinguaggio e «metaeconomia» (talora lo specialismo disciplinare può diventare superstizione, sosteneva Elias Canetti) e misurandosi, dialogando, con altre forme di conoscenza l’arte potrà non solo superare l’inerzia accademica nella quale sembra piombata la produzione attuale, ma anche, antica o contemporanea che sia, aspirare a una funzione, a un ruolo e a una sua persistenza. Fallito negli anni Trenta del secolo scorso il sogno del Modernismo, l’utopia necessaria, ancora una volta, forse è un futuro ispirato a un umanesimo sostenibile?
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