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«Non fumo, non faccio sesso, non uso contraccettivi, non ho il ciclo, non indosso mutandine blu pallido che assomigliano a una delle nuvole di Turner. Non produco macchie sul letto in quel modo, come facevo una volta, e se lo facessi non avrei un letto così, le lenzuola verrebbero lavate immediatamente», ha dichiarato Tracey Emin riferendosi alla sua opera più celebre, «My Bed», presentata nel 1999 alla Tate Gallery, quando l’artista (Craydon, Londra, 1963) venne selezionata come finalista per il Turner Prize. I condom e le mutandine facevano parte, insieme ad altre testimonianze di vita vissuta, come confezioni di pillole, bottiglie di vodka vuote, sigarette, un test di gravidanza, un autoritratto in Polaroid ecc. (nella prima versione c’era anche un cappio) di quella «capsula del tempo», come più avanti sarebbe stata definita, costituita dal letto sfatto.
Era il relitto di qualche giorno difficile alla fine di una relazione sentimentale: «Dopo una settimana di forti bevute, mi sono svegliata ed ero così disidratata che ho pensato: “Se non bevo un po’ d’acqua morirò”. Mi sono accasciata e ho strisciato fino alla cucina, ho preso da bere, ho bevuto lentamente qualche sorso e sono tornata in camera da letto, mi sono alzata e mi sono sentita come se... Era disgustoso. Ho guardato il letto e ho pensato: “Oh mio Dio, avrei potuto morire lì dentro” e così sarei stata trovata. E poi da un secondo che sembrava orribile si è improvvisamente trasformato in qualcosa di lontano da me, qualcosa di esterno a me, e qualcosa di bello. L’ho immaginato improvvisamente fuori da quel contesto, congelato, fuori dalla mia testa, in un altro luogo» (acquistata nel 2014 in un’asta Christie’s per 2,5 milioni di sterline dal collezionista tedesco Christian Duerckheim, l’opera nel 2015 è stata concessa in prestito per dieci anni dal suo proprietario alla Tate Britain).
La vita, che come ben sa Emin, è crudele, le ha fornito altri «accessori»: un tumore alla vescica nel 2020 l’ha costretta a un devastante intervento chirurgico. Lo stoma che le consente di urinare è diventato soggetto dei suoi dipinti e di un video: «Non è che stia sventolando la bandiera dello stoma, e se ne hai uno è un vero dolore nella vita, ma molte persone tengono il loro stoma segreto. E poi, oltre al dolore, quando qualcosa va storto è strano. Quindi penso che sia utile vederlo, ed è una bella immagine». Non solo lo stoma, ma anche un fisico mutato, passato dalla magrezza della gioventù alle forme matronali di una donna di 62 anni, è un tema per le riflessioni e le opere di un’artista il cui unico soggetto è sempre stato il racconto autobiografico. La malattia ha contribuito ad associare la sua opera, e non poteva essere altrimenti, a quella di Frida Kahlo, resa invalida da un incidente su un autobus; ma quello della pittrice messicana è soltanto l’ultimo nome inserito nella «costellazione Emin», dopo Egon Schiele, Louise Bourgeois e l’amato Edvard Munch. Alla madre che lasciò orfano l’artista norvegese all’età di cinque anni, è dedicato il bronzo alto quasi 7 metri che troneggia al termine dell’Isola dei Musei di Oslo: benché questa scultura non sia tra le sue cose migliori, Emin è risultata vincitrice di un concorso bandito nel 2022 dal Munch Museum e dal municipio della Capitale. Le opere di Munch e di Bourgeois sono state esposte insieme alle sue, in mostre dedicate, rispettivamente nel 2021 alla Royal Academy di Londra e, nella stessa città, nel 2011 da Hauser&Wirth.
Tracey Emin, «The Decent 2112 HK», 2016, collezione privata c/o Xavier Hufkens Gallery. © Tracey Emin. All rights reserved, Dacs 2025
Il pittore Martin Maloney, nel suo testo introduttivo nel catalogo della mostra «Sensation», ovvero il lancio internazionale degli Young British Artists collezionati da Charles Saatchi (Royal Academy, Londra, 1997) propose un primo accostamento a Cindy Sherman: Emin, secondo l’artista-critico nonché espositore in quella storica occasione, riprendeva «il gioco dell’egomania» dalla collega americana, mettendo a punto «l’idea dell’autoritratto e il culto dell’artista indagando i suoi oggetti». L’oggetto personale, per Emin, era in quel caso una tenda da campeggio all’interno della quale aveva ricamato i nomi delle 102 persone con le quali sino ad allora aveva dormito. Amanti occasionali o fidanzati, come il pittore Billy Childish, paradossalmente cofondatore del gruppo degli Stuckist, noto per le sue violente polemiche circa l’arte britannica contemporanea, o il curatore Carl Freedman; ma anche la nonna o il fratello gemello, con il quale aveva dormito all’interno dell’utero materno, o due figli abortiti.
«Sensation» includeva altri artisti intenti all’autobiografismo: c’era l’autoritratto di Marc Quinn, una scultura di sangue coagulato conservata alla giusta refrigerazione; c’era Jenny Saville, che metteva in mostra nei suoi dipinti il suo corpo afflitto dalla cellulite; c’era la famiglia disfunzionale di Richard Billingham, autore di una serie fotografica. Sebbene la mostra sia passata alla storia per opere meno autoreferenziali, come l’agnello sotto formaldeide o la testa bovina putrescente ma incubatrice di vita in «Thousand Years» di Damien Hirst e il ritratto dell’infanticida Myra Hindley realizzato da Marcus Harvey con le impronte delle mani di centinaia di bambini, tra gli YBA partecipanti non potevano infatti mancare un nucleo di artisti interessati, cosa assai in voga negli anni Novanta, al tema dell’individualità e dell’identità, spesso svolto tramite iconografie corporali, talora sconfinanti nelle ultime prove della Body art.
Nel mondo era il momento del diarismo estremo di Nan Goldin, delle operazioni di plastica facciale cui si sottoponeva Orlan, degli autoritratti en travesti di Yasumasa Morimura, sorta di analogo giapponese di Cindy Sherman, e della sua connazionale Mariko Mori. Alla Biennale del 1995 la mostra centrale, curata da Jean Clair, era un excursus storico intitolato «Identità e Alterità». Dopo il ritorno alla pittura, un altro movimento si opponeva dunque al lungo dominio della fobia da autoreferenzialità praticata dal Concettualismo. L’artista, autore e protagonista, tornava potentemente in scena. E con l’artista tornava attuale la manualità realizzativa: per Tracey Emin si trattò dapprima del cucito, poi della pittura. Oggi qualsiasi studentessa d’accademia in cerca di una certa attualità espressiva ricorre all’ago e filo; e l’arte tessile, ora decisamente debordante sul panorama del contemporaneo, era utilizzata soprattutto dalle artiste come richiamo a una di quelle attività domestiche attraverso le quali veniva identificato il ruolo della donna come angelo del focolare. Scrivere cose sconvenienti o produrre iconografie incentrate sul piacere sessuale attraverso il cucito e il ricamo era negli anni Novanta un gesto tutto sommato ancora interessante, e su questo terreno c’è chi ha accostato il lavoro di Tracey Emin a quello dell’egiziana Ghada Amer, entrambe appartenenti alla generazione della «cattive ragazze» del periodo.
Tracey Emin, «Thriving on Solitude», 2020, collezione privata. © Tracey Emin. All rights reserved, Dacs 2025
Un merito che va riconosciuto a Emin è di non avere mai cercato il traino del neofemminismo, benché sia emersa in una fase storica in cui l’arte praticata dalle donne stava diventando una sorta di genere in cerca di stabilizzazione sul mercato; l’era della correttezza politica, agli albori ai tempi di «Sensation», avrebbe dato, in tal senso, una mano decisiva. Come altre sue colleghe, ha intrecciato la sua identità femminile e la sua biografia con la sua opera: lo hanno fatto tanto Paula Rego, che pure si esprime con un linguaggio figurativo tradizionale, quanto Barbara Epworth nella sua «Pictorial Autobiography» (1970), biografia fotografica della sua attività scultorea alternata con immagini della sua vita famigliare. Oggi la «quota rosa» alle biennali sta diventando sempre più ampia, ed Emin ha una sua spiegazione: «Penso che le donne stiano facendo molto meglio degli uomini. Gli uomini raggiungono l’apice tra i 40 e i 50 anni, le donne tra i 50 e gli 80 anni. Gli uomini hanno una grande eiaculazione gigante, mentre le donne vengono e vengono e vengono ancora. Ecco perché se siete un’artista donna e ve la cavate bene a 50 anni, a 60 ve la caverete egregiamente, a 70 sarete fottutamente eccellenti e a 80 e 90 sarete fuori dal mondo. Louise Bourgeois a 97 anni continuava a darsi da fare, a pensare. Se riesco a essere così, significa che sono solo a metà della mia carriera».
Le sue scelte politiche non hanno contribuito a renderla più simpatica o gradita all’establishment radical. In passato ha apertamente sostenuto le candidature dei conservatori Tony Blair e David Cameron; il primo, nel 2010, le aveva chiesto di realizzare un’opera per la Government Art Collection e lei donò il neon «More Passion». Il fatto che solo a seguito dello scandalo suscitato dal partygate, le feste organizzate da Boris Johnson nel giardino di Downing Street durante il lockdown per l’epidemia di Covid19, abbia chiesto di ritirare l’opera dalla residenza del primo ministro ha suscitato molte ironie. È bizzarro, hanno scritto i media britannici vicini ai laburisti, che Emin prenda le distanze dai conservatori solo ora, a causa di qualche party in giardino. Avrebbe potuto farlo quando i tories decisero l’aumento delle tasse universitarie, o quando hanno varato leggi contro l’immigrazione, senza contare la loro scarsa sensibilità per i giovani artisti. Per la cronaca, l’artista si è comunque dichiarata contraria alla Brexit e ha precisato che lei aveva donato l’opera allo Stato e non al primo ministro, quindi quel lavoro può essere esposto in qualsiasi sede statale, ma non a Downing Street.
È finita sui giornali anche la polemica (e la presunta vendetta dell’artista) con il critico d’arte dell’«Independent» Philip Hensher, che aveva definito Emin un’artista priva di talento e «imbarazzantemente stupida», mentre l’intelligenza sarebbe una prerogativa indispensabile soprattutto per un’artista concettuale. Secondo il critico, dopo l’uscita dell’articolo Emin lo avrebbe pesantemente «stalkerato» facendo inviare al suo indirizzo confezioni di assorbenti per l’incontinenza urinaria indicando come destinatario «Miss Phyllis Henshaw» (il critico è omosessuale). Secondo Hensher, il comportamento della sua presunta persecutrice «era quello di una scolaretta tredicenne: ma non avevo forse detto io stesso, nel corso di una demolizione completa dell’arte ridicola e poco riuscita di Tracey, che molti dei suoi slogan - “Hai dimenticato di baciarmi l’anima” - assomigliavano al genere di cose che le scolarette scrivevano sul retro dei loro foglietti? Non è forse esattamente il genere di cose che potrebbe plausibilmente fare?».
«Ogni parte di me sta sanguinando»; «Vai a farti fottere, sgualdrina»; «Il sesso anale è legale?»; «Il mio cuore è con te»; «La mia fica è bagnata dalla paura»: sono tra le invettive, le espressioni di sofferenza e le parole affettuose che costituiscono gli slogan al neon, spesso contornati da un cuore, che rappresentano una parte rilevante della produzione di Emin. E che irritano i suoi detrattori, vuoi perché non accettano che la scontatezza, la trivialità e la banalità sono parte della vita quotidiana della maggior parte delle persone, vuoi perché hanno contribuito alle fortune finanziare della ex loser di Margate, il paese sulla costa del Kent dove Emin è cresciuta (le cifre di queste opere, realizzate in unico esemplare o in tirature di tre, spaziano dalle 15mila alle 300mila sterline). Il frequentissimo invito a farsi fottere e il tutt’altro che raro indulgere a tutto il repertorio del turpiloquio hanno d’altro canto moltissimi ammiratori e acquirenti.
Tracey Emin «It-didnt stop-I didnt stop», 2019. Courtesy dell’artista e Xavier Hufkens, Brussels © Tracey Emin. All rights reserved, Dacs 2025
«Probabilmente sono nate più leggende su Tracey Emin che su qualsiasi altro artista apparso sulla scena negli anni Novanta con l’etichetta di YBA», scrive Uta Grosenik nella scheda dedicata all’artista britannica in Women Artists in the 20th and 21st Century, una di quelle liste e/o classifiche pubblicate dalla Taschen (questa è del 2001), che hanno contribuito al boom popolare dell’arte contemporanea. Da allora ad oggi Emin ha forse integrato con fatti reali le leggende.
Nel 2006 ha pubblicato una discussa autobiografia, Strangeland. Il libro è diviso in tre parti, «Motherland», «Fatherland» e «Traceyland», che trattano rispettivamente della sua infanzia nella deprimente località balneare di Margate, della sua intensa relazione e dei suoi viaggi con il padre turco-cipriota, un uomo che a un certo punto lascia la madre di Tracey, una donna di origine rom che gestiva un hotel, per raggiungere la sua famiglia legittima, sprofondando quella che aveva lasciato in Inghilterra nella povertà, e delle riflessioni di un’artista di successo, che si descrive come «una bella donna fottuta, pazza, anoressica, alcolizzata e senza figli. Non avrei mai immaginato che sarebbe stato così». Louisa Buck, nella sua recensione per «The Art Newspaper» ne scrisse così: «Strangeland fornisce un fiume di informazioni dolorosamente intime, in particolare i numerosi resoconti di incontri sessuali in tutte le fasi della vita di Emin, compreso lo stupro in una strada secondaria di Margate all’età di 13 anni, e le frequenti incursioni nel lurido mondo dei suoi sogni. Ma da qualche parte in questi sfoghi e, nel caso dei suoi sogni, eccessivi, si percepisce che, dietro le scopate, i pianti, la rabbia e le urla, c’è qualcosa che manca, che viene trattenuto o che sfugge all’artista. Come ha fatto, per esempio, l’adolescente problematica che ha lasciato la scuola a 13 anni, dopo aver “scoperto gli uomini, il sesso e i locali notturni”, a diventare la ventottenne con una laurea di primo livello in Belle Arti al Maidstone College of Art (in grafica d’arte, Ndr) e un master al Royal College?». Secondo Buck, il capitolo più avvincente della biografia è quello iniziale, «Like a hook from the sky» (Come un gancio dal cielo), che in origine era «Exploration of the souls» (Esplorazione delle anime) (1994) «un testo-performance che Emin portò in tournée negli Stati Uniti, dipingendo un ritratto lirico e agrodolce di Margate, evocata in tutto il suo pacchiano splendore come “la punta dell’isola di Thanet, che spunta come un dito indice piegato dalla nocca impazzita dell’Inghilterra (…)».
Ha ragione il critico Nicholas Lezard quando scrive che, secondo lui, «la gente si è abituata allo spettacolo delle confessioni di Tracey Emin. Dopotutto, sono la sua arte. Ricordo di aver guardato la sua famosa installazione “My Bed” e di aver pensato: “Se non fosse per gli assorbenti igienici, il mio letto era più o meno così fino a quando non si è trasferita la mia futura moglie”». Poi, però, precisa Lezard, «ho sentito una sua intervista in cui diceva che il letto era una ricostruzione del letto in cui si trovava quando ha quasi deciso di uccidersi. Ah, ho pensato, ora ho capito. La sua arte non è solo un modo di vivere per lei: è la vita stessa, l’opposto della morte, eppure in una prossimità abbastanza allarmante». Parole che, tra l’altro, contribuiscono a chiarire perché Emin non è Georgia O’Keeffe, diventata famosa più per la sua vita che per la portata della sua opera.
Tracey Emin, «Exorcism of the last painting I ever made», 1996. Courtesy of Schroeder Collection and Faurschou Collection © Tracey Emin. All rights reserved, Dacs 2025. Courtesy White Cube
Dal 2007 (14 anni dopo il suo esordio in una personale alla White Cube di Jay Jopling a Londra), quando è stata scelta come rappresentante della Gran Bretagna alla Biennale di Venezia, Emin ha intensificato la sua produzione pittorica. «I dipinti e gli acquerelli dell’artista, lirici e carichi di luce, facilmente eludono la distinzione tra sentimento e sentimentalismo, spesso superando di gran lunga il limite: aborti e masturbazione da un lato, uccelli e gatti dall’altro», scrisse in quell’occasione, in catalogo, Andrea Rose, cogliendo alla perfezione, quel confine tra autenticità e retorica, fra teatro della crudeltà à la Artaud e teatro e basta su cui si muove con una certa abilità Emin.
È attraverso la pittura, peraltro, che il pubblico italiano più giovane ha conosciuto da vicino il suo lavoro, esposto nelle numerose mostre da Lorcan O’Neill a Roma (l’ultima è del 2023, mentre dello scorso anno, sempre incentrata sui dipinti, ma comprensiva di una scultura è «I followed you to the end» alla White Cube Bermondsey). La White Cube e la belga Xavier Hufkens sono le due gallerie che la rappresentano, dopo il recente divorzio da Lehman Maupin di New York.
«Se tutto il lavoro che ho fatto, i ricami, i film, le fotografie, le performance, tutto, fosse una montagna, e io mi arrampicassi, arrivassi in cima alla montagna, prendessi l’asta della mia bandiera, la infilassi in modo che la mia bandiera soffi nel vento, quella sarebbe la mia pittura, ha dichiarato l’artista a Louisa Buck. Negli anni Novanta, al Royal College of Art. Avevo due tutor: Ken Kiff mi ha insegnato tutto sui diversi colori e sulla loro miscelazione, mentre Alan Miller mi ha insegnato a preparare le tele e a conoscere i pennelli e tutti i colori che si possono usare. È stato fantastico. Poi ho lasciato l’Università e ho scoperto che la pittura era del tutto inaccettabile negli anni Novanta, soprattutto se eri un pittore figurativo, così ho pensato: “Ok, scriverò”. Così ho iniziato a frequentare quei “giovani artisti”, ed è finita lì: sono stata coinvolta in quel vortice, ero felice di esserlo. Ma non ho mai smesso di disegnare».
Tracey Emin, «All I want is you», 2016. Courtesy dell’artista e Xavier Hufkens, Brussels. © Tracey Emin. All rights reserved, Dacs 2025
Se, come e quanto è cambiato il suo lavoro nell’arco di una carriera più che trentennale lo documenta la retrospettiva in apertura il 16 marzo a Palazzo Strozzi a Firenze. E quanto è effettivamente cambiata lei, Tracey Emin, oggi membro della Royal Academy, Commander of the Most Excellent Order of the British Empire «per il suo contributo alle arti» e insignita dell’appellativo di «Dame» (l’equivalente femminile di «Sir») da re Carlo III?
Forse non è rimasto molto della giovane artista che nel 1997, in un dibattito televisivo della Bbc cui era stata invitata a conversare con David Sylvester, Norman Rosenthal, Richard Cork e Waldemar Januszczak, i maître à penser della critica d’arte dell’epoca, sul tema: «La pittura è morta?», si presentò ubriaca ma abbastanza lucida da chiedere ai suoi illustri interlocutori, per poi abbandonare la trasmissione: «Scusate, ma pensate davvero che alla gente interessi qualcosa di quello che stiamo dicendo?». Per sua ammissione, certi atteggiamenti erano ispirati da una specie di autodifesa: «Mi dispiace di non averti fatto capire quanto fossi seria nei confronti dell’arte. Mi dispiace di essere sembrata irriverente, come se non mi importasse. L’arte mi interessa più di ogni altra cosa al mondo. Forse la nascondevo a tutti perché avevo paura di essere rifiutata». Non ha problemi a sottolineare che le sue origini, l’aver conosciuto la durezza della vita, hanno contribuito a farle tenere in piedi per terra: «Ho accumulato un enorme portafoglio immobiliare perché amo gli immobili, perché ho paura di rimanere senza casa, perché ho paura che i miei amici siano senza casa. Sono stata tre volte senza casa nella mia vita. Quando dico senzatetto, intendo due volte con la mia famiglia e una volta da sola, da adulta. Ho comprato la mia prima casa nel 2001. Mentre tutti si facevano di coca, io pagavo il mutuo», ha dichiarato in un’intervista con Jerry Saltz alla vigilia di una sua mostra a New York, in quegli Stati Uniti in cui il pubblico e i collezionisti faticano tuttora a comprendere il suo lavoro.
Affiancata dal suo fidatissimo direttore creativo Harry Weller, ha uno studio a Londra, uno nel Midi francese e uno, il principale, a Margate, dove ha inoltre convertito l’edificio di un vecchio stabilimento balneare e un ex obitorio in residenza per giovani artisti (Tears-Tracey Emin Artists Residence) in una scuola d’arte e in una scuola di cucina per la ristorazione. In queste sue attività ha impegnato il ricavato di «Like A Cloud of Blood» (2022), che tre anni fa ha superato di quattro volte la sua stima minima all’asta di Christie’s, ottenendo 2,3 milioni di sterline con le commissioni.
Tracey Emin, «I do not expect», 2002, Sidney, Art Gallery of New South Wales. © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © Stephen White. Courtesy White Cube
Ha investito in immobili ma ancora di più, come ha scritto Emily Labarge, «sulla sua vulnerabilità». In tal senso, «Everyone I sleep with 1963-1995», la tenda da campeggio che ne segnò il folgorante esordio, è stata interpretata come il guscio autoprotettivo per una giovane donna ferita. La tenda, distrutta nell’incendio che nel 2004 devastò il magazzino in cui Saatchi conservava parte della sua collezione e mai più ricostruita per ferma contrarietà dell’artista, ha avuto seguito in anni recenti, utilizzata da artiste come Rebecca Belmore (che ne fece scolpire una in marmo nella puntata di Atene di documenta 2027) o Nil Yalter (Biennale di Venezia 2024) in forma di simbolo antropologico o del trauma della migrazione forzata. Meglio, forse, ragionare per opposti e riflettere su quanto sia mutata l’arte negli ultimi cinquant’anni.
La recente retrospettiva di Carla Accardi al Palazzo delle Esposizioni di Roma ha incluso un esempio di struttura-pittura abitabile, la tenda che in realtà ha la forma di una casa, un modulo sperimentato dall’artista a partire dal 1966. Una casa mobile, provvisoria ma trasparente, una struttura attraverso la quale la pittura interagiva con lo spazio e con i visitatori. Un atto di fiducia, un gesto utopico, ancora di matrice modernista, sulle potenzialità dell’arte costruttiva e costruttivista, in grado di porsi al centro della nostra vita quotidiana. La tenda di Emin è invece una vera tenda campeggio, e tutto si svolge al chiuso e al buio; non più pittura romanticamente astratta ma scrittura. Non più una sollecitazione a interagire con l’opera ma un invito all’intimità di una confessione diaristica. Ai tempi di Accardi le artiste non erano così numerose come ai tempi di Emin. E al di là del fatto che questo non ha affatto migliorato la vita delle donne (basterebbe dare un’occhiata al numero dei femminicidi, dei maltrattamenti e delle molestie denunciati ogni anno), il paradosso dell’arte che si fa latrice di messaggi politici e sociali per un pubblico pur sempre elitario e progressista che in ogni caso è perfettamente d’accordo e al corrente circa quanto gli artisti cercano di dire, rende il tutto uno sterile ed edificante esercizio di manifestazione di sani principi.
Qui sta la differenza: parlando di sé stessa, Emin riesce a essere più «universale» (come lo era, «parlando d’arte», Carla Accardi) ed efficace di tanti suoi colleghi compilatori di slogan in forma di video, sculture, installazioni. Emin si esprime attraverso un linguaggio in cui un colore che cola lungo la tela riesce a diventare sangue vero; perché alla fine, rispetto alla narrazione antropologica ed etnologica proposta dall’arte oggi di moda, narrazione che ripone il suo fascino in un esotismo perbenista, è preferibile qualcosa di più vero e di più comune. Prima della (ex?) «bad girl» Emin, a Palazzo Strozzi ha esposto anche Ai Weiwei, un vero specialista della correttezza politica da social media e della spettacolarità cui può essere piegata certa arte impegnata. Forse i visitatori della mostra di Dame Tracey Karima Emin potranno rendersi conto di quanto, a fronte dell’invasione degli «allegri tropici» offerti dalle etnobiennali di questi tempi, alle mostre e agli artisti così pittoreschi, edificanti, moraleggianti e tardo-new age, la sua, di arte, e le sue trasgressioni autentiche siano quanto mai indispensabili antidoti. Oggi come trent’anni fa, Emin riesce ancora a turbarci e a disturbarci riportando al centro del quadro l’essere umano, la sua fragile bellezza, il duro mestiere di vivere e il mai risolto problema dell’esistere.
Tracey Emin
Al Kunstmuseum, in sequenza, due mostre parallele raccontano l’eresia e la ribellione di due artiste torinesi agli antipodi (o quasi)
Il recente boom di mercato dell’artista ne rivaluta, a sorpresa, i dipinti più provocatoriamente convenzionali e commerciali che fecero storcere il naso ai critici. Ora se ne parla paragonandolo a de Chirico e a Morandi e i suoi colleghi oggi più in voga lo citano come un modello e un precursore
«Non mi ero mai reso conto di quanto il Castello costituisca un punto di riferimento internazionale. Quando viaggio per lavoro, nel 90% dei casi la prima cosa che mi sento dire è: “Rivoli è il mio museo preferito al mondo”. La mia aspirazione è che i torinesi, i piemontesi e gli italiani abbiano questa stessa relazione con il Castello»
Modelli, modelle e amanti del «diavolo divino della pittura britannica» sfilano alla National Portrait Gallery di Londra. Ma la «human presence» di questa mostra non è solo autobiografia e gossip: attraverso la figura umana, tema e rovello di tutta l’arte europea, Bacon riannodò il filo spezzato dalle avanguardie storiche e, ultimo pittore «antico», anticipò quella che sarebbe diventata l’«ossessione corporale» dell’arte contemporanea, da Nan Goldin a Damien Hirst