Anna Somers Cocks
Leggi i suoi articoliVanno approvate Beatrice Merz e la curatrice Claudia Gioia che nonostante l’indignazione per il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre non hanno esitato a confermare la mostra intitolata «Through the Palestinian Museum of Natural History and Humankind» (Attraverso il Museo Palestinese di Storia Naturale e dell’Umanità) dell’artista palestinese Khalil Rabah (alla Fondazione Merz dal 30 ottobre al 28 gennaio 2024, Ndr). Per contro, vanno biasimati alcuni visitatori della fiera Artissima che hanno dichiarato che non sarebbero andati a vedere la mostra di un palestinese.
Ma che cosa avrebbero visto nella mostra di questo artista che ha già esposto al Centre Pompidou, al British Museum, alla Biennale di Sharjah, alla Kunsthaus di Zurigo e in altri luoghi qualificati?
Khalil Rabah è nato a Gerusalemme nel 1961, sei anni prima della Guerra dei Sei Giorni, ed è cresciuto assistendo a progressive limitazioni del territorio, dell’economia e dei diritti del suo popolo. Ha studiato arte e architettura all’Università del Texas, conosce bene i movimenti dell’arte contemporanea occidentale e lo si collocherebbe nella categoria del concettualismo, ma senza la freddezza di intellettualizzazioni eccessive.
«The Palestinian Museum of Natural History and Humankind» è il suo opus magnum, un’opera in continua evoluzione iniziata vent’anni fa per descrivere ciò che accadeva al suo popolo e alla sua patria. Elementi dominanti della mostra sono gli ulivi, alberi che da secoli rappresentano la Palestina.
Un lungo recinto, che ricorda un abbeveratorio, è foderato con un telo di plastica trasparente e corrugata, in cui l’olio d’oliva, un tempo principale fonte di reddito dei palestinesi, forma delle pozze. Dal soffitto pendono frammenti dell’elaborato ricamo a punto croce che caratterizza l’abito nazionale delle donne palestinesi; la spezzettatura evoca la geografia oggi frammentata dei territori rimasti, così come sono esposti tappeti il cui design riproduce la mappa di case confiscate o distrutte. Da una fotografia a grandezza naturale di un campo profughi sono estromesse le figure umane. Un video mostra un’asta d’arte per testimoniare che non vi sarebbe museo senza mercato.
Come molte opere di artisti mediorientali che hanno imparato la pratica dell’arte in Occidente, si occupa anche del processo stesso di produrre arte e delle modalità in uso di categorizzarla e curarla. La mostra, spesso ironica, svela quanto Rabah subisca anche l’influenza del noto critico palestinese Edward Said, autore di Orientalismo, il quale trovava avvilente che gli occidentali avessero studiato i popoli del Medio Oriente in un modo, secondo lui, quasi tassonomico, come se fossero oggetti.
Il museo di Rabah, in parte reale e in parte immaginario, è composto da dipartimenti museali come Antropologia e Paleontologia e da etichette, teche e archivi (forse contenenti documenti veri), fossili, meteoriti e manufatti.
A Ramallah, dove vive e lavora, il giardino botanico dell’artista è un giardino vero e concreto. Ma, degno di una favola di Italo Calvino, Rabah ha compiuto uno stupefacente atto legale avendo convinto la Corte Suprema Svizzera a dichiarare cittadini elvetici cinque ulivi nel Parco dell’Ariana a Ginevra: essi sono dunque diventati rappresentanti del popolo palestinese in esilio aventi diritto a protezione.
Chi visita la mostra capisce che la Palestina non è identificabile con Hamas e che la polarizzazione delle nostre reazioni sta producendo pericolose conseguenze che un tempo avremmo ritenuto inammissibili in una società libera. Il 19 ottobre la rivista americana «ArtForum» ha pubblicato una lettera aperta firmata da oltre mille noti personaggi del mondo dell'arte che chiedevano «la fine delle uccisioni e dei danni recati ai civili, il cessate il fuoco immediato, l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza e la fine del coinvolgimento del governo americano in violazioni gravi dei diritti umani e in crimini di guerra».
La lettera ometteva però di condannare il massacro e il rapimento da parte di Hamas di circa 1.700 uomini, donne e bambini israeliani, forse dandolo per scontato. Purtroppo, proprio per la tensione rabbiosa che oggi sconvolge e divide il mondo l’omissione è stata interpretata come prova che i firmatari fossero nemici di Israele e probabilmente anche antisemiti. E una settimana più tardi, dopo una carriera nella rivista durata 18 anni, il direttore di «ArtForum», David Velasco, è stato licenziato.
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