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Francesca Merloni

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Francesca Merloni

Macerie e Nobiltà

Nata in una famiglia di imprenditori, ora è scrittrice, poetessa, mecenate e «Ambasciatrice di buona volontà»  per l’Unesco. Impegnata, tra l’altro, per la rinascita dei borghi marchigiani terremotati, mette in guardia  sui rischi del «turistificio» e ritiene che «la cultura, se non è accoglienza, è soltanto un esercizio di stile» 

Stefano Miliani

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Ha un tragitto di vita alquanto insolito, poco conforme a vie già tracciate, Francesca Merloni. Con la famiglia originaria di Fabriano (Ancona), nata a Roma, dopo anni nella comunicazione per l’industria oggi è a tempo pieno scrittrice, poetessa, interprete a teatro dei suoi testi e di monologhi a volte messi in musica da autori come Danilo Rea. Al pari di personalità come Montserrat Caballé, Plácido Domingo, Rigoberta Menchú Tum e Forrest Whitaker, da novembre è «Ambasciatrice di buona volontà» per l’Unesco nel progetto delle «Città creative» di cui Fabriano fa parte dal 2013 per la sezione «Artigianato, Arti e Tradizioni Popolari» grazie proprio all’azione dell’eclettica Merloni. Da anni promuove i borghi, a partire da quelli del Centro Italia dopo il terremoto del 2016 dove, constata, a causa della burocrazia «si sta iniziando a morire di regolamenti», affinché cessi lo spopolamento, affinché i piccoli centri adottino progetti culturali economicamente sostenibili, compatibili con l’ambiente, la storia e la natura. In questo scenario si inserisce Rinasco, programma per ricostruire i paesi dell’Appennino colpiti dal sisma della Fondazione Aristide Merloni intitolata al fondatore della storica Ariston (Francesca Merloni, nipote di Aristide, fa parte del consiglio di amministrazione della Ariston Thermo Group) che portò milioni di elettrodomestici nelle case italiane (in seguito l’azienda acquisì la Indesit). Con una laurea alla Luiss in scienze politiche, Francesca Merloni ha imboccato una strada in cui la stella polare è la cultura.

Iniziamo dai borghi, visto che l’impegno le ha portato l’incarico dell’Unesco: di che cosa si tratta?

Come «Fabriano città creativa» e come Fondazione Merloni abbiamo promosso la Carta di Portonovo che determina le qualità che dovrebbe avere la nuova città: aperta, educativa, sostenibile, accogliente... Questi punti sono stati fissati in base all’agenda dell’Unesco. Dopo il sisma nel Centro Italia ho pensato di applicare questi principi alla ricostruzione dei borghi. Ho presentato l’iniziativa all’allora direttrice generale Irina Bokova: è venuta nelle Marche a luglio e per iniziare abbiamo scelto San Ginesio, nel maceratese, che diventa un laboratorio per la ricostruzione con il sigillo dell’Unesco. Siamo partiti con progetti concreti di imprenditori che finanziano iniziative, piano piano si passerà a un progetto più ampio. Vogliamo recuperare zone a rischio di spopolamento proponendo un nuovo modello sostenibile di città che utilizza la tecnologia per facilitare la vita quotidiana, in particolare nei settori della salute e del monitoraggio geologico.

Perché insiste sul ricostruire i borghi?

Costituiscono la spina dorsale della nostra civiltà, tanto più i borghi alle pendici dell’Appennino. Sono meravigliosi, ad altissima densità artistica, storica, testimoniano l’impegno dell’uomo colto e raffinato, sono avamposti di civiltà e di cultura. Credo che siano testimoni di un modo di vivere più sostenibile, più umano, più vicino alle esigenze rispetto alle metropoli, dove la vita è dispersa e faticosa. La qualità di vita lì è più alta.

Esiste il rischio che l’Italia dimentichi questi centri dopo l’emergenza?

Sì, esiste. Passate le emergenze diventiamo distratti e dopo il sisma del 2016 ci siamo impantanati in vincoli burocratici terribili. Lancio perciò un appello per le zone dimenticate e trattate in modo superficiale: non è stata presa a cuore la vera esigenza dei residenti che devono rimanere in loco e non venire deportati sulla costa. Le persone volevano rimanere sul posto, avevano animali, stalle, attività, laboratori. Inoltre quei luoghi d’arte meravigliosi vanno salvaguardati e resi abitabili. L’Italia spesso lo dimentica e vedo una grande lentezza nel togliere le macerie. Le prime casette sono arrivate pochi mesi fa, la gente ha dignità e si rimbocca le maniche ma spesso non è possibile agire nemmeno come privati: la burocrazia sembra impedire qualunque cosa, si sta iniziando a morire di regolamenti. Le macerie sempre lì. Questi sono fatti.

Fabriano «città creativa dell’Unesco»: in concreto che cosa implica?

Grazie alla sua storia nella fabbricazione a mano della carta, nel 2013 è stata inserita in un network di 170 città con definizione analoga il quale privilegia il patrimonio immateriale dei centri urbani che in qualche modo si sono reinventati attraverso una cultura. Essere nel network, che è molto serio, implica una grandissima apertura: la città entra in contatto con altre nel mondo, si scambiano progetti, viaggi, iniziative comuni. Ne fanno parte Mumbai, Edimburgo, Montreal e Pechino.

Ha riflessi sull’afflusso turistico?

Sulle iniziative sì. È un bollino di qualità. Giustifica l’afflusso turistico. Certo, dipende dalla qualità messa in campo: è un’opportunità per offrire il meglio, un’apertura di credito.

A Fabriano lei ha curato la «donazione Ester» alla Pinacoteca Civica Bruno Molajoli. Da Balla a Nunzio, comprende dipinti e qualche scultura di 21 artisti del ’900 italiano tra i quali Alberto Savinio, Filippo de Pisis, Giacomo Manzù, Lucio Fontana, Piero Dorazio, Piero Manzoni ed Emilio Vedova. Come si è orientata?

Ester Merloni era mia zia. È morta nel marzo 2015 a quasi 93 anni e ha voluto contribuire alla sua città nel modo per lei più appropriato, attraverso un messaggio culturale. Abbiamo allestito le opere seguendo un criterio d’affetti, disponendole come erano nella sua casa. Infatti abbiamo chiamato le sale «Casa di Ester». Volevo trovare una via per legare le opere che aveva acquisito in base a gusti personali o incontri: desideravo un concetto che la ricordasse con toni affettuosi e quindi ricreare le stanze della sua dimora. A ciò ho accompagnato una lettera e una poesia indirizzate a lei.

Come connette l’attività di poetessa e scrittrice alla battaglia per i borghi?

Faccio e vedo tutto attraverso gli occhi del poeta, vedo connessioni che tante volte sfuggono e mi piace portarle alla luce. Porgo la poesia anche in forma orale: in collaborazione con Gianmarco Tognazzi e Remo Anzovino ora giro i teatri italiani con un mio testo, «Guardiana», il che rafforza la consapevolezza di un patrimonio persino commovente. Abbiamo una ricchezza artistica diffusa e molto diversa da un luogo all’altro: penso a Castel del Monte, Sirmione, Mantova, Ferrara, Ravenna, e potrei continuare a lungo.

Eppure spesso dimentichiamo questi luoghi o li usiamo solo come macchine per far soldi.

Sì, è così. Da una parte dimentichiamo, dall’altra svendiamo e trascuriamo perché questa bellezza non ci stupisce più, ne siamo assuefatti. Sono passata di recente da Firenze: davanti al Duomo e al Battistero dobbiamo inginocchiarci, sono cattedrali laiche della genialità dell’uomo e dobbiamo ricordarlo.

Il centro storico fiorentino non è diventato un turistificio? E il problema non investe solo Firenze.

È vero, investe anche il centro storico di Roma, per non dire di Venezia. Proliferano i luoghi sciatti dove i turisti ciabattano senza riguardi e non è giusto. Le imprese culturali non sono macchine per soldi, la cultura va preservata. Ci si può agganciare al discorso turistico, ma salvaguardando il luogo, mantenendo lo spirito originario. Serve attenzione, non possiamo farne un lasciapassare per altre cose. Nulla vieta di impiegare la bellezza però preservando la sua scintilla ultima che è sacra. Invece soffochiamo questa scintilla perché puntiamo al risultato immediato, che va a sciupare un discorso più ampio che sarebbe anche più duraturo. Compiamo uno scempio verso le generazioni passate, perché offendiamo la memoria, e lo compiamo anche verso le generazioni future.

Come e perché è passata alla produzione culturale? Viene da una famiglia importante nell’industria degli elettrodomestici.

Nasco da una famiglia di imprenditori che si è presa molto a cuore il proprio territorio, c’è un patto sociale forte. Nel percorso di Fabriano con l’Unesco ho cercato di fare la mia parte perché ognuno di noi ha una responsabilità per il semplice fatto di essere sulla Terra e di abitare un luogo. Vivere dove viviamo è un onore perciò ritengo importante cercare di fare del proprio meglio. E metto sul tavolo ciò di cui sono capace.

Quale risposta ha avuto?

Fabriano si è stretta intorno a queste iniziative e sta iniziando un percorso che si affianca a quello imprenditoriale e culturale.

Ma come estenderebbe il discorso al panorama italiano attuale?

Dovremmo cominciare tutti quanti a mettere al centro l’uomo, le sue esigenze ultime di vita, di appartenenza, di accoglienza. Se l’obiettivo invece è un altro diventa tutto difficile.

Ha posto più volte l’accento sulla parola «accoglienza». In un forum di pochi mesi fa a Fabriano ha affermato che «la cultura, se non è accogliente, è solo un esercizio di stile». Con i migranti alle porte, molti non sopportano questa apertura.

Lo so. Si tratta di un grande problema della nostra epoca, vediamo spostamenti di masse di persone che non vengono gestiti. La politica deve prendersene carico. Tanti si sradicano dai loro luoghi d’origine, hanno bagagli importanti di sofferenza e di dolore, arrivano da zone disastrate in Paesi con civiltà, usi, costumi, climi e cibi diversi: è difficile un’integrazione così disordinata e confusa. Probabilmente le cose vanno gestite con un po’ di ordine. L’accoglienza vale nei confronti di tutti: ora pensiamo ai migranti, ma vale per ogni uomo. Avere una società, una città accogliente, risponde a bisogni primari, è un’esigenza fondamentale, per cui dobbiamo occuparci della polis, dalla comunità.

E lei come connette questo alle arti?

Dalle poesie all’attività per l’Unesco ai borghi, credo di seguire un percorso coerente su quei principi che reputo capisaldi, valori fondanti. Per l’Unesco infatti devo promuovere la creatività e la cultura anche attraverso la produzione di opere e spettacoli a tema.

In estrema sintesi, perché promuove e difende la cultura?

Ci fa viver meglio, ci educa, è un elemento etico fondamentale prima ancora di diventare un patrimonio estetico.

Stefano Miliani, 01 febbraio 2018 | © Riproduzione riservata

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