Redazione GdA
Leggi i suoi articoliLo storico dell’arte Maichol Clemente (Udine, 1985), nostro collaboratore e autore della rubrica «Il convitato di pietre» nella sezione «Opinioni», è l’autore di una scoperta rara e sensazionale: un «San Sebastiano», lavoro giovanile di Gian Lorenzo Bernini.
Com’è avvenuto questo ritrovamento?
All’incirca un anno fa ero impegnato in un progetto finanziato da Venetian Heritage sull’attività veneta dello scultore genovese Filippo Parodi. Tra i suoi artisti di riferimento c’è il francese Pierre Puget, a cui Parodi si ispirò anche per uno dei suoi lavori nella Basilica del Santo di Padova. Ebbene, rileggendo qualche articolo su Puget veniva segnalata una sua opera, un «San Sebastiano», in una piccola chiesa francese in un paesino poco distante da Versailles, a Jouy-en-Josas. Per pura curiosità (sempre da assecondare!) sono andato quindi a cercarmi una fotografia. Così l’indagine ha preso avvio.
Com’è arrivato alla certezza che il «San Sebastiano» sia di Gian Lorenzo Bernini?
Esisteva fortunatamente una traccia ineludibile: un articolo uscito nel 2001 sul «Bollettino d’Arte» in cui Laura Testa pubblicava dei documenti inediti sulla richiesta a Bernini da parte del cardinale Pietro Aldobrandini di una statua raffigurante proprio san Sebastiano. Siamo alla fine del 1618 e si tratta della prima commissione nota diretta al solo Gian Lorenzo, dove cioè il suo nome non compare più affiancato a quello del padre Pietro, anche lui scultore, all’interno della cui bottega si era formato. Ho deciso di approfondire quel preciso torno d’anni restringendo così non di poco la mole di materiale da leggere, rileggere e verificare. La cautela iniziale nel giro di qualche mese si è dunque tramutata in un’evidenza.
Quindi la scultura è sicuramente quella Aldobrandini?
Le carte Aldobrandini (e con esse quelle Borghese e Doria Pamphilj) sono molto chiare. A me pare che il «San Sebastiano» custodito nella Chiesa di Saint Martin a Jouy-en-Josas corrisponda quasi alla perfezione a quello in esse descritto: «Un San Sebastiano di marmo legato ad un tronco con armatura alto palmi otto in circa con suo piedistallo di legno bianco con cornice dorata».
Ma com’è finita la statua da Roma in Francia?
Questo è un punto delicato tanto sul versante italiano, quanto su quello francese. Per quanto riguarda la parte romana, l’opera in un primo momento si trovava nel palazzo di via del Corso, l’attuale Galleria Doria Pamphilj. A un certo momento venne trasferita nella Villa Aldobrandini a Monte Magnanapoli, a pochi passi dal Quirinale, dov’è attestata per l’ultima volta in un inventario del 1710, cioè quello steso a seguito della morte di Giovanni Battista Pamphilj. Da quel momento la scultura sparisce dai radar: non se ne ha più notizia. Sembra incredibile, tuttavia sono situazioni non eccezionali, anzi abbastanza normali quando entrano in gioco complicate questioni ereditarie che vedono, come in questo caso, coinvolte ben tre famiglie, tra cui i famosissimi Borghese.
Per la Francia, invece?
Le ricerche a Roma le ho effettuate personalmente, quelle in Francia le ho affidate invece a un bravo storico dell’arte, Wandrille Potez. Sfortunatamente si è scoperto che una parte dell’archivio della parrocchia di Jouy è andato disperso. Ad oggi la prima attestazione della presenza del «San Sebastiano» risale al 1836, cioè quando il parroco cerca di venderla per racimolare un po’ di denaro. Ora abbiamo anche l’aiuto di una residente di quel paesino, Claude Laude: un’archivista in pensione che ho conosciuto nella chiesa il giorno in cui stavamo fotografando la statua. Un incontro accidentale, ma in qualche modo straordinario: anche lei, appassionata benché non sia una storica dell’arte, aveva intuito si trattasse di un’opera richiamante alla lontana Bernini.
Avete effettuato nuove fotografie perché l’opera non era stata ben documentata?
È così. C’erano poche immagini, molte storiche, tutte eseguite sostanzialmente da un unico punto di vista e con una luce non eccezionale. Accanto alla raccolta della letteratura specialistica bisogna pensare in parallelo e da subito al materiale fotografico, che dev’essere il più possibile recente. Mi sono affidato a Mauro Magliani, il fotografo di Padova con cui collaboro da vari anni. Come sempre è stato entusiasmante: Mauro e sua moglie Barbara Piovan hanno preso il camper e sono partiti per la Francia. Ci siamo dati appuntamento a Jouy un lunedì mattina. Siamo rimasti in chiesa dalle 10 fino alle 18. A lui ho commissionato anche buona parte della campagna fotografica di altre opere di Pietro e Gian Lorenzo che sarà alla base del progetto su cui sto lavorando con la casa editrice Darte di Todi.
Quindi pubblicherà un libro su questo nuovo Gian Lorenzo Bernini.
Il libro sarà pronto alla fine dell’anno, i dettagli verranno svelati durante una conferenza il 30 settembre in Palazzo Corsini a Firenze, durante la XXXIII Biennale Internazionale dell’Antiquariato. Dopotutto si tratta di un’opera di Bernini: necessita di un sovrappiù di attenzione e cura.
Qual è l’importanza di questo «San Sebastiano»?
Si pone per certi versi sulla stessa linea dell’«Enea e Anchise» della Galleria Borghese, un gruppo iniziato nel 1618 ma scolpito sostanzialmente l’anno successivo. Sono opere, insieme ad alcune altre, di cerniera tra la fase di apprendistato e quella di totale autonomia di Gian Lorenzo Bernini. Filippo Baldinucci, autore nel 1682 di una delle prime biografie dedicate all’artista, parlando proprio della statua Borghese scrive: «Fu questa la prima opera grande, ch’egli facesse, nella quale, quantunque alquanto della maniera di Pietro suo Padre si riconosca, non lascia però di vedersi […] un certo avvicinarsi al tenero, e vero, al quale fino a quell’età portavalo l’ottimo gusto suo». Ebbene, questo passaggio può benissimo adattarsi anche al nostro «San Sebastiano». Infatti, se da una parte in esso si percepisce ancora il debito nei confronti del padre, dall’altra spicca l’autonomia con cui Bernini junior è riuscito a creare un’immagine di grande pathos, con soluzioni compositive che adotterà addirittura in futuri lavori.
Lei è primariamente uno specialista di scultura veneziana del Sei e Settecento. Ha già avuto riscontri da studiosi o studiose dello scultore?
In laguna non mancano opere di Bernini padre e figlio. Basti pensare al «Monumento Dolfin» in San Michele in Isola. Sulla prima attività giovanile di Gian Lorenzo ci sono ottimi studi e a loro mi sono affidato. Tra quelli a tutt’oggi ineludibili ci sono sicuramente quelli di Irving Lavin. Uno dei saggi più interessanti e dalle argomentazioni ancora convincenti è di certo quello di Andrea Bacchi pubblicato nel catalogo della mostra «Gian Lorenzo Bernini. Regista del Barocco», tenutasi a Roma nel 1999. Penso poi anche alla monografia su Pietro pubblicata da Hans-Ulrich Kessler nel 2005. Utilissimo infine è risultato anche l’ultimo catalogo ragionato su Bernini curato da Maria Grazia Bernardini: un lavoro aggiornatissimo e nelle cui schede si dà puntualmente conto delle opinioni dei vari studiosi.
Non è cosa da poco ritrovare un Bernini. Quali sensazioni si provano?
Il lavoro di pura ricerca è sempre entusiasmante. Certo, questo è un artista che rappresenta, come Michelangelo o Canova, la quintessenza dell’arte della scultura. Sicuramente vedere il «San Sebastiano» per la prima volta per me dal vivo è stato elettrizzante ed emozionante insieme. Quel corpo, che la vita sta lentamente abbandonando, appare come appeso a un gancio, quasi fosse un animale macellato. Le gambe puntellate, ancora per poco, l’ansa del torace gonfio del penultimo respiro prosegue nel braccio che si piega e ricade sulla testa ormai abbandonata. Ed è lì che il nostro sguardo incontra gli occhi oramai vuoti del martire. È una statua a cui Gian Lorenzo Bernini ha saputo infondere anche un tratto di sensualità che la rende oltre modo magnetica.
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Dal 2019 è direttrice esecutiva e chief curator dello Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz Mocaa) a Città del Capo
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