Roberta Bosco
Leggi i suoi articoliLe tre ciminiere si alzano minacciose in mezzo a una spianata ostile, se c’è il sole ti carbonizzi, se piove si trasforma in una distesa di fango, davanti si snoda la spiaggia deserta che gli abitanti del luogo chiamano Chernobyl. Nella desolazione la tela verde di Jeremy Deller con la frase «Speak to the earth and it will tell you» (Parla con la terra e lei ti risponderà) ondeggia al vento e accoglie i visitatori delle Tres Ximeneies, la centrale elettrica di Sant Adrià del Besòs, la sede più emblematica di Manifesta 15, che ha aperto le sue porte l’8 settembre (visibile fino al 24 novembre). Totem di sogni di sviluppo e ricchezza e di lotte proletarie per una vita degna, le tre ciminiere sono abbandonate da anni. Furono le donne del quartiere che riuscirono a far alzare la costruzione di 20 metri, di modo che i fumi inquinanti si disperdessero più rapidamente, per questo è più che mai adeguata «When women strike the world stops» (Quando le donne scioperano, il mondo si ferma), l’opera dei Claire Fontaine che sovrasta l’intero allestimento. Jordi Martí ,che fu assessore e adesso è segretario di Stato per la cultura del Governo di Pedro Sanchez, diceva che questo è il museo ideale del XXI secolo. «Ha senso ampliare il Macba, il museo d’arte contemporanea, con tutto quello che comporta, quando si potrebbe utilizzare questo posto?». Potrebbe sembrare una boutade, ma in effetti perché no? Dal PS1 in avanti abbiamo visto funzionare più di un esempio in questa linea. Se è vero che Manifesta, come afferma la sua direttrice Hedwig Fijen non è un ufo che arriva e se ne va, come assicurano i suoi detrattori, ma un dispositivo che attiva problematiche e incide sulla realtà delle città che la ospitano, il dibattito sull’uso futuro delle tre ciminiere come prolungamento del Macba dovrebbe essere una delle sue eredità.
Entrando nella centrale elettrica, la «Frankenstein Forest» di Kiluanji Kia Henda, realizzata con alberi bruciati nell’incendio che devastò una zona limitrofa, dialoga con le tele bianche mosse dal vento di Asad Raza che, come l’installazione di Niels Albers, evocano le 250 specie di uccelli migratori che passano ogni anno per Barcellona. Gli stessi uccelli che stanno per essere oggetto di un’ecatombe ecologica se si arriva a costruire il nefasto terzo aeroporto, promosso dall’attuale sindaco di Barcellona, Jaume Collboni, che ha inaugurato questa biennale piena di progetti che affrontano da molteplici prospettive il disastro ecologico in corso. È una delle tante contraddizioni che affiorano tra le maglie di questa Manifesta, diffusa in 16 sedi di 12 località, la più grande, ma anche la più complicata della storia, per l’equipe di produzione certamente, ma anche e soprattutto per i visitatori. Tra l’altro il famigerato terzo aeroporto minaccia anche la splendida Casa Gomis, monumento dell’architettura razionalista e del saper vivere, dove si espongono le opere storiche e più delicate, tra cui i vasi zoomorfi di Chiara Camoni, disegni di Antoni Tàpies e un video di Ana Mendieta. Sicuramente uno dei punti forti della proposta sono gli spazi, tutti, senza eccezioni, pieni di fascino, per la maggioranza non preposti all’arte e molti sconosciuti agli stessi barcellonesi. Pochi possono dire di avere visitato il rifugio antiaereo della Guerra Civile, situato sotto la piazza centrale di Granollers, che i Masbedo hanno fatto aprire per realizzare la performance «Ghost soldiers (gabbing away)», una riflessione sulle fake news e sull’uso delle immagini per manipolare, convincere e ingannare la gente. Peccato che si sia potuta vedere solo durante i quattro giorni della preview, perché è il prosieguo perfetto dell’incredibile (ma vera!) storia di «Pantelleria», un video che costituisce la genesi della guerra ritrasmessa per televisione e dello stato attuale dell’informazione, che si può vedere all’ombra di un albero di Guernika nel giardino del Centro della Cultura per la Pace Can Jonch di Granollers, fino alla chiusura della biennale il 24 novembre.
Molti spazi sono vestigia della rivoluzione industriale catalana, avviata dalle fabbriche tessili a metà dell’800, come Can Trinxet de L’Hospitalet, dove espone l’italiana di origini senegalesi Binta Diaw che colonizza il vecchio spazio industriale con una treccia di 800 metri tessuta dalle donne della comunità africana della località. L’opera è un omaggio alle donne catturate come schiave che, è un simbolo di resistenza, nelle loro trecce nascondevano i semi per portare parte della loro vita nel loro drammatico viaggio. La Fijen non ha dimenticato neanche il passato romanico e gotico della regione, rappresentato dal Monastero di Sant Cugat e dall’insieme vescovile di Egara dove spiccano le sculture scolpite con sapone blu della sudafricana Buhlebezwe Siwani, che rappresentano le donne della sua famiglia (e lei stessa da bambina) ritratte con tenerezza, senza la durezza che, dice, accompagna sempre le immagini della maternità nera. In cambio nel Monastero di Sant Cugat spiccano le sculture totemiche di Martin Toloku discendente di una famiglia di falegnami del Ghana, che scolpisce i ritratti dei suoi antenati con la convinzione che i loro spiriti continuano a vivere nei materiali da lei usati. Nei giorni della vernice, Toloku ha realizzato una performance per la quale ha imparato a ballare il flamenco, che dice essere simile ai movimenti e ai ritmi delle danze tradizionali della sua tribù. Nel giardino del chiostro le figure voluttuose di Bea Bonafini evocano dee addormentate, mentre nella storica serie «Women and Smoke» di Judy Chicago, i fuochi d’artificio e il fumo colorato servono per rappresentare le donne come dee vendicatrici o sacrificali. Tra le creazioni inedite merita un momento di attenzione il murale monumentale di Fanja Bouts in cui, in un modo apparentemente giocoso e gioioso, utilizza la satira per sferrare un pugno al capitalismo e alle sue conseguenze per il pianeta.
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