Una veduta della mostra «Metal Panic» di Marcello Maloberti al Pac-Padiglione d’Arte Contemporanea

Foto: Andrea Rossetti

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Una veduta della mostra «Metal Panic» di Marcello Maloberti al Pac-Padiglione d’Arte Contemporanea

Foto: Andrea Rossetti

«Metal Panic»: la cruda elegia di Marcello Maloberti

Al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, la mostra dell’artista lombardo è perfetta e drammatica, piegando l’architettura di Gardella a un lirismo spietato

Leggendo ciecamente di «un atto d’amore dell’artista per Milano», mi aspettavo da «Metal Panic» di Marcello Maloberti il compendio buono a una leggenda metropolitana che non riconosco più. E invece...alleluia, colpo di scena!

«Metal Panic», al Pac: stillicidio dell’immaginario logoro della capitale economica d’Italia omaggiata (indagata?) con una serie di installazioni fredde e perfettamente connesse tra loro, finalmente piegando l’architettura di Gardella al lirismo acido che l’artista porta in scena attraverso una dozzina di grandi interventi, escludendo fotografie e performance. Un panorama post-urbano dove l’estetica «cantierale», sacchi di sabbia e strutture segnaletiche provvisorie, sono i perni sui quali si mostra in forma splendidamente autoriale l’abisso «dell’Italia del nostro tempo», come scrive il curatore Diego Sileo

Il paesaggio è dato: un guardrail fissato in blocchi di marmo bianco Henraux («Tilt», 2024) non assomiglia solo a una linea di separazione, a un percorso obbligato; è la Lombardia velenosa di tangenziali e lucide scale che salgono al piano superiore di villette singole e umide, sulla linea ferroviaria Milano-Mantova, dove si trova anche Casalpusterlengo, la cui iniziale, scivolando sulla K, si identifica nella «Karpi» di Pier Vittorio Tondelli, regno della «vittoria sociale» in quella decade lontana anni luce, gli ’80, dove anche tra le nebbie che solcavano tutta la via Emilia, da Rogoredo a Rimini, si annodava un briciolo di glamour, lo scintillio che tutte le ragazze dell’ormai quasi trentennale «Sex & The City» sognavano: peccato che quando da New York si scenda a Malpensa l’impressione sia quella di essere arrivati al cimitero. La Madonna, il cui sguardo è rivolto alla parete («In search of the miraculous», 2024), lo sa: mentre ci dà le spalle sentiamo le nostre al muro; sono finiti i miracoli a Milano. Almeno per ora.

«Metal Panic» è lo squarcio perfetto nel tessuto dell’illusione, il digrignare di una piccola-media impresa in crisi, nel silenzio inquinato della Padania: puro genius loci. Una mostra perfetta, dolorosamente perfetta: non un elemento fuori posto, non una installazione o un «oggetto» superfluo. Il cielo, là fuori («Cielo», 2024), è solo nello spazio dell’immaginazione, come diceva anche Loredana Bertè, in auto con Asia Argento, in una indimenticabile puntata del reality ante-litteram «Milano-Roma», in onda alla fine degli anni ’90. 

Una veduta della mostra «Metal Panic» di Marcello Maloberti al Pac-Padiglione d’Arte Contemporanea. Foto: Andrea Rossetti

D’altronde a Marcello Maloberti piace essere pop, ma questa mostra lo è solo nella scelta del racconto di un territorio indagato attraverso una elegia tagliente, cruda, affilata come le forbici che compongono il fregio che accoglie i visitatori («Chance di un capolavoro», 2024), in dialogo con il grande cartello stradale di ingresso a Milano ribaltato («M», 2024): piazzale Loreto, il Duce e i kompagni appesi a testa in giù, certo, ma perché no anche Tangentopoli o l’era Berlusconi; una città che da sempre sembra andare a un’altra velocità e «in direzione ostinata e contraria», per utilizzare anche De André, alternando brevi epoche d’oro e lunghi tempi in panchina. 

«Metal Panic» è un ritratto per sottrazioni, per palpitazioni, per agitazioni: l’alterato stato psicologico del presente. E poi c’è Pasolini, con il petrolio che costò la vita a Enrico Mattei, sacrificato nell’esplosione del suo piccolo aereo sui boschetti del Pavese, nel 1962, in avvicinamento a Linate. «Petrolio» non vide la luce quando Pasolini fu assassinato, nel 1975, ma l’intellettuale già aveva annodato i fili di quegli avvenimenti che oggi, per molti aspetti, continuano ad essere relegati alla categoria dei «complotti». Qui, a tenere aperti i volumi di «Petrolio» nel mezzo, in una delle pagine delle Visioni del Merda con la fidanzata Cinzia, presagio di mezzo secolo fa sull’attitude attuale, sono semplici coltelli da cucina dall’impugnatura nera: soldati o tumuli, in una installazione semplice e potentissima («Petrolio», 2024). Il domestico e la violenza, la Milano delle sparatorie e degli attentati e la tovaglia da cucina a scacchi bianchi e rossi delle osterie tra Emilia e Lombardia che diventa uno stendardo («La vertigine della Signora Emilia», 2024); anche in questo caso c’è Pier Vittorio Tondelli che di nuovo sembra andare di pari passo con Pasolini: l’Italia della tradizione rurale si intreccia e si sfilaccia con il potere, quella dei «Kompagni avanti, il gran partito, tutto passato...finito». E poi la nonna e la mamma, e ancora la tovaglia come abito e identità. 

Quasi un gioco, una rivendicazione d’appartenenza, e allo stesso tempo la possibilità di reimmaginare un’altra Emilia, alias Laura Betti, che diventa santa e martire in «Teorema»: «Torva, immersa in una biblica apocalissi, pronta ad incontrare Dio e a riconoscerlo con antica, umile rassegnazione», come raccontava l’attrice, musa di Pasolini. È la storia, forse, di molte donne dei campi grigi e afosi del nord, meno spettacolarizzata rispetto alle colleghe di altre regioni, ma non per questo meno sublime. 

Sublime come la capacità di Maloberti nel creare una miscela dal vero gusto piombo, di vestire di poesia abbagli notturni («Martellate», 2024) e di rendere grazia a corpi dall’oscurità metafisica aderenti alla storia sociale di Milano («Sironi», 2024) , oggi disciolti in un mare di immagini ancora da comprendere. 

Una veduta della mostra «Metal Panic» di Marcello Maloberti al Pac-Padiglione d’Arte Contemporanea. Foto: Andrea Rossetti

Matteo Bergamini, 10 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

«Metal Panic»: la cruda elegia di Marcello Maloberti | Matteo Bergamini

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