Simone Facchinetti
Leggi i suoi articoliGregori Guglielma (Guglielmina), nota a tutti col nome di Mina, è nata a Cremona il 7 marzo 1924. E il 7 marzo la Fondazione Longhi a Firenze le dedicherà una festa per i suoi cent’anni. Volendo unirci idealmente ai festeggiamenti ripercorriamo alcuni momenti dell’intensa carriera della decana degli studi storico artistici in Italia.
La prima scena madre si è svolta a Firenze. È un episodio che ho ascoltato dalla voce della «Signorina» (com’era chiamata familiarmente) la «Professoressa» (com’era chiamata più formalmente Mina Gregori). Quando si è iscritta all’Università di Firenze la cattedra di storia dell’arte era occupata da Mario Salmi. Pare che la giovane Gregori avesse un occhio formidabile (aveva studiato al liceo di Cremona con Alfredo Puerari) e durante le lezioni fosse in grado di riconoscere i nomi degli autori ancora prima che venissero svelati. Da lì il suggerimento di studiare sotto la guida del maggiore conoscitore del tempo, Roberto Longhi, che viveva a Firenze ma all’epoca insegnava a Bologna. Con la baldanza e la spensieratezza dei neofiti è andata a incontrarlo direttamente nella sua casa di via Benedetto Fortini. Pare che Longhi l’avesse messa alla prova sottoponendole la fotografia di un’opera d’arte. Dopo averla riconosciuta si era sentita dire: «Si ricordi che l’arte non le risparmierà i dolori». Nel corso del tempo prese sempre più sicurezza, se è vero che ebbe il coraggio di redarguire il maestro perché non si presentava puntualmente a lezione.
A Bologna fece un secondo incontro memorabile. Anche questo episodio è stato raccontato tante volte dalla stessa Gregori. Era in attesa di incontrare Longhi, fuori dal suo studio. L’ufficio era aperto ma di lui non c’era traccia. Era seduta vicino a un uomo piuttosto alto, magro e allampanato. I due sono rimasti a lungo in silenzio, fino a quando l’uomo si è alzato di scatto rivolgendole la parola: «Lei sta aspettando il professor Longhi, immagino?». «Sì, certo». «Purtroppo non posso rimanere, quando lo incontra può riferirgli che è stato qui Giorgio Morandi».
Nel 1949 si è laureata con Longhi, discutendo una tesi dedicata a Luigi Miradori detto il Genovesino. Col senno del poi si capisce che in quella scelta c’era già una vocazione agli studi territoriali (Genovesino aveva a lungo vissuto e operato a Cremona), ma anche la volontà di affrontare un argomento per nulla facile nel panorama figurativo del XVII secolo. La decisione fondamentale fu però quella di scegliersi il maestro. Longhi vinse la cattedra fiorentina nel 1950 (Salmi, nel frattempo, si era trasferito a Roma) e da Bologna si portò dietro un’allieva che nel corso del tempo sarebbe diventata prima la sua assistente e poi la sua erede, subentrandogli dopo il pensionamento come docente aggregato e infine come professore ordinario di Storia dell’arte medievale e moderna.
I primi anni della sua attività sono segnati da esperienze che l’avrebbero marcata a fuoco, non dico per l’intera traiettoria dei suoi studi ma certo per un tratto significativo. Longhi l’aveva coinvolta in un’impresa espositiva fortunata e irripetibile, la mostra di «Caravaggio e i caravaggeschi» allestita a Palazzo Reale a Milano nel 1951. Lo studioso si era ammalato improvvisamente, proprio mentre era in allestimento il catalogo. A Gregori furono affidate gran parte delle schede delle opere in mostra. Forse nessuno oggi avrebbe il coraggio di affrontare una simile impresa.
A Bologna aveva stretto amicizia con studiosi del calibro di Carlo Volpe e Francesco Arcangeli, e con quest’ultimo avrebbe mantenuto un rapporto di speciale vicinanza. Poi fu la volta di Giovanni Testori e, soprattutto, di Federico Zeri.
Una circostanza sulla quale forse non si riflette mai abbastanza è che all’epoca era una delle pochissime donne (della sua generazione mi vengono in mente soltanto i nomi di Paola Barocchi, Maria Luisa Ferrari, Evelina Borea e Fiorella Sricchia Santoro, tutte più giovani di lei) che riuscì ad affermarsi in un mondo quasi esclusivamente maschile. Non è raro, ancora oggi, sentirle dire che per raggiungere i suoi obiettivi era stata costretta a sacrificare il mondo degli affetti privati. Gli unici che ha mantenuto, inossidabili, sono quelli familiari. Prima con la sorella Luisa (storica dell’arte, scomparsa anni fa) e poi con le nipoti Sandrina e Maria Cristina Bandera, entrambe note storiche dell’arte.
La seconda mostra longhiana che avrebbe determinato molte scelte future della studiosa è quella dei «Pittori della realtà in Lombardia» del 1953. Nonostante abbia sempre sostenuto che rispetto all’impianto teoretico dei «Pittori della realtà» preferiva quello più solido e articolato dei «Precedenti caravaggeschi» (pubblicati da Longhi nel 1929), molti anni dopo avrebbe affrontato, con risultati memorabili, alcuni dei protagonisti di quell’evento espositivo, come Giovan Battista Moroni e Giacomo Ceruti, ai quali avrebbe dedicato due fondamentali monografie.
Gli anni Cinquanta sono segnati dai saggi magistrali sui campioni della pittura cremonese del Cinquecento: «Traccia per Camillo Boccaccino», «Altobello, Romanino e il Cinquecento cremonese», «Altobello e Gian Francesco Bembo»; indagini che saranno alla base della mostra che curerà nel 1985, dedicata ai «Campi. Cultura artistica cremonese nel Cinquecento». Ripercorrendo la sua bibliografia si rimane impressionati nel vedere come nello stesso decennio abbia trattato argomenti che restituiscono la fisionomia di una conoscitrice fuori dal comune. Solo per dare un’idea menziono alcuni nomi trattati negli articoli: Pietro Lorenzetti, Martino Spanzotti, Lelio Orsi, Annibale Carracci, Battistello Caracciolo, Gaspare Traversi. Tutti saggi brevi in cui sono rese note opere fino ad allora sconosciute, nella migliore tradizione longhiana.
All’epoca forse solo Zeri poteva dominare altrettanti segmenti della storia dell’arte italiana. La Gregori ha sempre subito una fascinazione per il grande conoscitore romano. L’altro suo compagno di strada è stato Giuliano Briganti, anche lui allievo di Longhi, anche se fuori dalle aule universitarie. È una differenza che la Gregori ha sempre rimarcato, ovvero la libertà di rapporto che gli allievi esterni potevano concedersi con il maestro (come Ferdinando Bologna che si era laureato a Roma con Pietro Toesca), a differenza del subordine che Longhi pretendeva da quelli che si erano formati direttamente con lui.
Mentre Zeri ha denunciato apertamente alcune ingiustizie e grettezze che si vivevano nell’officina di casa Longhi (lo ha fatto dopo la rottura con il maestro e tardivamente), Gregori ha sempre mantenuto una certa riservatezza su quei fatti privati; tuttavia, possiamo facilmente immaginare che siano stati anni un po’ ingrati. Dietro la sua aria gioviale e felice si nasconde infatti la maschera di una persona che è stata costretta a combattere strenuamente per ogni posizione guadagnata sul campo.
Gli anni Sessanta sono inaugurati da un’iniziativa solo apparentemente imprevedibile, la «Mostra dei tesori segreti delle case fiorentine» (1960), da leggere in parallelo con l’«Avant-propos sulla pittura fiorentina del Seicento» (1961), germe della futura rassegna sul Seicento fiorentino. L’anno successivo è la volta della vasta mostra lombarda dedicata al Morazzone. La medesima Gregori ha ricordato (forse solo a voce) che all’epoca rischiava di non riuscire a consegnare il catalogo in tempo, presa da mille impegni e scadenze di lavoro; perciò, venne fisicamente segregata in un albergo dagli organizzatori della mostra, isolata dal mondo, per permetterle di portarlo a termine. Pare che in quella circostanza mise su un po’ di peso, costretta a non abbandonare mai il perimetro della stanza d’hotel che si era trasformata in una sorta di prigione dorata.
Il tempo è un bellissimo tema da intrecciare ai percorsi biografici di Gregori. Quello che passa periodicamente nelle sue terre d’origine (ogni anno torna per le feste comandate nella casa di famiglia, nei pressi della Chiesa di Sant’Abbondio a Cremona); quello che trascorre nelle vacanze estive a Esmate (nel bergamasco, dove ha fatto costruire una casa, negli stessi luoghi di villeggiatura di Maria Luisa Ferrari); quello che fino a pochi anni fa consumava in continui viaggi intorno al mondo, a visitare fiere, mostre e musei. Uno dei suoi adagi preferiti è sempre stato: «Per diventare uno storico dell’arte è necessario viaggiare, vedere e conoscere». Ma il tempo è anche legato alle passioni giovanili che torneranno periodicamente a bussare alla sua porta.
Uno degli argomenti che da sempre la appassiona è quello della storia della connoisseurship, quindi non deve stupire che nell’anno accademico 1967-68 abbia tenuto un corso all’Università di Firenze intitolato «Filologi e conoscitori tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento». Era un modo per riscoprire le proprie origini, ancora nel solco della lezione longhiana. Dalle ceneri di Longhi (scomparso nel 1970) è rinata una nuova Gregori.
Si susseguono i tre decenni più produttivi della sua attività di studio e di ricerca. Gli ambiti geografici iniziano progressivamente a dilatarsi e toccano, prevalentemente, le regioni della Lombardia, della Toscana, del Veneto e di Roma (che fa Stato a sé). Anche l’arco cronologico delle indagini si distende dal Medioevo al Settecento, da Giovanni da Milano a Caravaggio a Ceruti. Questa intensificazione della produzione scientifica è anche il frutto di un magistero diretto che aveva iniziato a dare dei frutti. Come si potrebbe immaginare la realizzazione del catalogo di «Tiziano nelle Gallerie fiorentine» (1978) senza il contributo dei suoi brillanti e numerosi allievi? Qui apro una piccola parentesi su Giuliana Guidi, una sua fedelissima allieva che ha deciso di affiancare Gregori per oltre quarant’anni. L’ha seguita, interpretata, tradotta: non penserete che la sua grafia sia facilmente decifrabile? Chi telefonava a Gregori, a qualunque ora del giorno, spesso sentiva dall’altra parte della cornetta la voce gentile di Giuliana: «Dovrebbe rientrare presto, almeno spero».
Anche la mostra sul «Seicento fiorentino» (1986) è il risultato di un intenso lavoro di squadra che ha portato alla ribalta un secolo fino ad allora rimasto ingiustamente negletto. Ci sono argomenti che uno studioso si sceglie liberamente e altri che eredita. Si può dire che, in larga parte, il Seicento fiorentino sia una creatura di Mina Gregori, e come tutte le creature, sia nel frattempo cresciuta, invecchiata, deceduta, ma anche rinata e trasformata, alla luce del nostro gusto corrente.
Ha invece ereditato l’interesse per Caravaggio e i caravaggeschi. Dopo la scomparsa di Longhi si era aperta un’enorme voragine e, contemporaneamente, l’argomento continuava a interessare il grande pubblico, e con esso i musei, gli editori, il mercato, i collezionisti ecc. È in questa congiuntura che trovano ragione alcuni contributi scientifici sull’argomento, la partecipazione alla mostra newyorkese «In the Age of Caravaggio» (1985) e, infine, la direzione dell’esposizione fiorentina «Caravaggio. Come nascono i capolavori» (1991). Un tema sul quale non ha mai smesso di scrivere, almeno fino a tre anni fa, quando è uscito il suo ultimo saggio.
Come nascono i capolavori? Mina Gregori ha collezionato tutta la vita disegni, dipinti e sculture, antichi e moderni (compreso ovviamente Morandi). Ha conosciuto un numero incalcolabile di antiquari, collezionisti, restauratori. Ha sempre amato capire a fondo la materia costitutiva delle opere d’arte e per farlo bisogna frequentare le botteghe di restauro che per lei sono sempre state l’equivalente dei negozi delle caramelle per un bambino. La felicità che la cattura quando ha in programma una visita in quei luoghi è alle stelle, anche perché c’è la possibilità di attribuire un nuovo quadro o addirittura di comprarlo. Non è un mistero che la sua casa in Palazzo Capponi a Firenze sia arredata con opere d’arte che in larga parte corrispondono ai suoi interessi di studio. E forse non è neppure un caso che prevalgano i quadri del Seicento fiorentino, il secolo che più ha contribuito a far riscoprire.
Uscendo dal cancello del suo giardino ci si trova, dopo pochi passi, davanti all’ingresso dell’Istituto Germanico, una delle biblioteche di storia dell’arte più cospicue d’Italia. Non che quella personale della Gregori sia modesta! Per accoglierla ha fatto costruire un apposito soppalco nella sala più grande della casa. È lo stesso luogo in cui conserva la fototeca, vasta e diramata. Su un tavolo della sala è appoggiata una lettera di Giacomo Leopardi (messa in cornice) in cui sono elogiati i Promessi sposi manzoniani. L’aveva comprata in un’asta di autografi e manoscritti, aggiudicandosela contro Giulio Einaudi. Immagino che questa lettera sia per Gregori una specie di macchina del tempo. La riporta all’epoca del suo primo saggio del 1950, intitolato Ricordi figurativi di Manzoni, apprezzato da Longhi e ammirato da Gianfranco Contini.
Non basterebbe una pagina di questo giornale per raccogliere l’elenco dei nomi dei suoi moltissimi allievi. Alcuni lavorano (o hanno lavorato) nei musei, nelle Soprintendenze e negli istituti di cultura italiani. Per farsene un’idea basterebbe scorrere il sommario del triplo fascicolo di «Paragone» del 1994 (la rivista fondata da Longhi nel 1950 e attualmente diretta dalla medesima Gregori) intitolato «Gli allievi per Mina Gregori», pubblicato in occasione del suo pensionamento dall’Università. Molti proseguono il suo magistero proprio dalle cattedre universitarie: Cremona (Francesco Frangi), Firenze (Novella Barbolani di Montauto), Modena (Elena Fumagalli), Napoli (Stefano Causa), Potenza (Elisa Acanfora) ecc.
Qualche settimana fa è stato chiesto al medico personale di Mina Gregori (un uomo di una certa età) quali fossero le reali condizioni di salute della studiosa. La risposta, riferitami da un testimone, è stata: «Se va avanti così ci seppellisce tutti».
Altri articoli dell'autore
La vista lunga del tiratore scelto • Perlustrazioni nelle aste e gallerie in compagnia del connaisseur Simone Facchinetti
Bonham’s, Christie’s e Sotheby’s aprono le danze invernali
La vista lunga del tiratore scelto • Perlustrazioni nelle aste e gallerie in compagnia del connaisseur Simone Facchinetti
Da Dorotheum un’asta debole (75 invenduti sui 149 lotti del catalogo) per un mercato in bilico tra le aspettative (sempre alte) e le offerte in campo (spesso non all’altezza)