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«Self Portrait I», 2015. © Chuck Close

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«Self Portrait I», 2015. © Chuck Close

Monumentali ritratti di minuscoli frammenti

È scomparso a 81 anni a Long Island Chuck Close

David D'Arcy

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Figura onnipresente nell’arte newyorkese sin dalla sua prima mostra in città nel 1968, Chuck Close è morto a Long Island a 81 anni. Ha realizzato opere di dimensioni mostruose e minuti dettagli, costruendo uno stile e un mercato globale con dipinti e fotografie dei suoi amici e contemporanei (il compositore Philip Glass, i colleghi artisti Cindy Sherman, Mark Greenwold e Lucas Samaras...), ritratti in immagini «fotorealistiche» (definizione che ha sempre rifiutato) con uno sguardo che definiva «Brobdingnagian» (dal nome della terra dei giganti nei Viaggi di Gulliver, Ndr) su chiunque accettasse di posare per lui: «Niente mi ha interessato tanto quanto le persone», ha dichiarato.

Anche il successivo approccio alla pittura è stato su scala colossale, in cui le opere rivelano i loro soggetti e il processo di costruzione dei loro ritratti attraverso minuscoli moduli irregolari di colore e forma. Il suo stesso volto severo, con lo sguardo fisso, calvo e barbuto prima dei 40 anni, è stato protagonista dei suoi lavori. Le sue opere sono state esposte ovunque, da Tokyo alla Tate, fino alla metropolitana di New York: fatto tanto più notevole perché un ictus nel 1988 lasciò Close tetraplegico, finché non imparò a dipingere di nuovo con un pennello legato a una mano.

Passò ai dagherrotipi, ritenendo tutt’altro che superata una tecnica giudicata antiquata. In un mondo ossessionato dalla bellezza e dall’apparenza, Close sulla sua sedia a rotelle era un habitué delle inaugurazioni e degli eventi mondani di New York. In un ambiente accusato di superficialità, il lavoro di Close, e lui stesso, avevano una forza rara. Tanto più sconvolgenti, quindi, sono state le accuse nel 2017 di molestie su alcune sue modelle.

Close, divorziato due volte, aveva offerto scuse, smentite e una spiegazione: «Come tetraplegico, cerco di vivere una vita completa e piena per quanto possibile. Ma, dati i miei limiti fisici estremi, ho scoperto che la totale schiettezza è l’unico modo per avere una vita personale». Da allora è scomparso dalla scena pubblica.

La National Gallery di Washington ha annullato una retrospettiva, l’Università di Seattle, nello Stato di Washington in cui era nato nel 1940, ha rimosso un suo autoritratto. Prima di morire, Close era ormai quasi invisibile. Rimane un pilastro della Pace Gallery, che lo annovera ancora tra i suoi artisti (una sua mostra è in corso fino al 25 settembre alla Gary Tatintsian Gallery di Mosca, in collaborazione proprio con la Pace). «Tutto nella mia vita è un prodotto delle mie difficoltà di apprendimento», ha dichiarato.

A Yale è stato compagno di classe di Richard Serra, ha poi insegnato all’Università del Massachusetts, prima di trasferirsi a New York nel 1967. Il Walker Art Center gli ha dedicato la prima retrospettiva nel 1979, seguito dal Whitney nel 1981 e dal MoMA nel 1998.

In quell’occasione, riflettendo su come avesse trovato la sua strada nel ritratto, Close ha detto: «Ho fatto una serie di cose per isolarmi dai venti impetuosi del cambiamento nel mondo dell’arte. Avendo il mio strano percorso eccentrico da seguire, i cambiamenti catastrofici del mare non mi hanno influenzato molto. (...) Ho sempre pensato che la risoluzione dei problemi fosse molto sopravvalutata e che la cosa più importante fosse la creazione di problemi. (...) Ponendoti una domanda che nessun altro si sta ponendo (...) è più probabile che arrivi a una soluzione personale. È così che mi sono avvicinato al ritratto nel 1967, quando la pittura era considerata finita, ancora una volta. Ma ovviamente penso che proprio quando la pittura è morta sia il momento migliore per fare dipinti...».
 

«Self Portrait I», 2015. © Chuck Close

David D'Arcy, 06 settembre 2021 | © Riproduzione riservata

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