Image

«Veduta di Venezia» (1500), di Jacopo de’ Barbari. Venezia, Museo Correr (particolare)

Image

«Veduta di Venezia» (1500), di Jacopo de’ Barbari. Venezia, Museo Correr (particolare)

Nell’incisione c’è chi copia e chi traduce

A Bassano del Grappa, il rapporto tra pittura e stampa nella Venezia cinquecentesca

Image

Franco Fanelli

Leggi i suoi articoli

È suggestivo pensare che la straordinaria luminosità dell’incisione veneta del Settecento, quella dei Tiepolo, di Canaletto e del primo Piranesi abbia le sue radici nelle pagine incandescenti della Hypnerotomachia Poliphili, «romanzo allegorico» di Francesco Colonna stampato a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio che con i suoi torchi impresse le 169 tavole xilografiche che illustrano le vicende del protagonista, Polifilo, figura divenuta uno dei simboli, come il libro stesso, della cultura umanistica.

Quel libro è testimonianza del periodo in cui  Venezia iniziò ad affermarsi tra le capitali europee dell’editoria e della stampa d’arte: la cronologia della mostra curata da Giovanni Maria Fara e David Landau e allestita dal 2 marzo al 23 giugno al Museo Civico di Bassano del Grappa (che conserva la straordinaria collezione Remondini di stampe) parte dal 1497, quando la tecnica dominante a Venezia e non solo era ancora la xilografia. Dominante anche per l’imponenza dei formati monumentali, quelli raccolti nella seconda sezione, impressi su più fogli da sei matrici di pero, come la veduta a volo d’uccello della Serenissima intagliata da Jacopo de’ Barbari, che, stampata nel 1500 sfiora i tre metri di larghezza.

Jacopo de’ Barbari aveva viaggiato e lavorato in Germania, da cui, nel 1506, arrivò a Venezia Albrecht Dürer. Un soggiorno durante il quale trascinò in tribunale Marcantonio Raimondi, con l’accusa di avergli copiato alcune stampe. Marcantonio, incisore di fiducia di Raffaello, se la cavò con la semplice proibizione di utilizzare il monogramma del rivale. Passando a questioni meno prosaiche, l’arrivo dei fogli di Dürer in Italia significò anche l’affermazione della calcografia attraverso i suoi mirabili bulini (in mostra, «Sant’Eustachio» e «La famiglia del satiro», ma anche «Melencolia I»). Era il secondo pittore di gran classe che portasse a Venezia con i suoi bulini; lo aveva preceduto nel ’400, Andrea Mantegna.

Al di là del copyright, comunque, la concorrenza tra gli incisori, nell’epoca in cui l’arte della stampa rivoluzionava il mondo della cultura e la fruizione dell’arte, aveva come terreno di confronto e di scontro l’abilità nel saper tradurre (e moltiplicare) i disegni e i dipinti dei grandi maestri. Ecco perché la trama di questa mostra sul «Rinascimento in bianco e nero» si sviluppa anche attraverso il rapporto tra maestri del pennello e quelli dell’intaglio. E racconta, fra gli altri, il sodalizio tra Tiziano e Cornelius Cort, arrivato dall’Olanda su raccomandazione di Domenico Lampsonio, segretario particolare del Vescovo di Liegi, che scrive a Tiziano stesso caldeggiando il ritorno a Venezia del suo protetto la cui mano, rispetto ai concorrenti, «è assai più ardita et veloce et dà meglior gratia ai panni et a quelle selvatichezze de’ paesaggi vostri». Sottigliezze chiaroscurali ignote agli xilografi e che invece padroneggiava il bulinista Cort. Il «traduttore» di Tintoretto fu invece Agostino Carracci, il fratello maggiore di Annibale. Per Giulio Carlo Argan, con Agostino emerge «il valore critico della stampa di traduzione», laddove il liguaggio segnico dell’incisione offre un «modello di lettura, un saggio di interpretazione» della pittura.

Evelina Borea, massima esperta di questo insidioso settore, ricorda però che dopo Agostino inizia anche il tramonto di quel periodo in cui l’arte dell’incisione pervenne a una sua identità linguistica proprio nel suo rapporto con la pittura. Dopo Barocci, gli incisori originali dell’epoca moderna saranno pochissimi, mentre, scrive Borea, «i traduttori verranno a schiere». A un grande «traduttore» di primo Seicento, Giuseppe Scolaro, è comunque affidata la chiusura della mostra: è anche uno degli sporadici casi in cui la xilografia dimostrava di poter ancora dialogare con la pittura, prima di incamminarsi sulla via dell’illustrazione.

«Veduta di Venezia» (1500), di Jacopo de’ Barbari. Venezia, Museo Correr (particolare)

Franco Fanelli, 29 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

«Non mi ero mai reso conto di quanto il Castello costituisca un punto di riferimento internazionale. Quando viaggio per lavoro, nel 90% dei casi la prima cosa che mi sento dire è: “Rivoli è il mio museo preferito al mondo”. La mia aspirazione è che i torinesi, i piemontesi e gli italiani abbiano questa stessa relazione con il Castello»

Modelli, modelle e amanti del «diavolo divino della pittura britannica» sfilano alla National Portrait Gallery di Londra. Ma la «human presence» di questa mostra non è solo autobiografia e gossip: attraverso la figura umana, tema e rovello di tutta l’arte europea, Bacon riannodò il filo spezzato dalle avanguardie storiche e, ultimo pittore «antico», anticipò quella che sarebbe diventata l’«ossessione corporale» dell’arte contemporanea, da Nan Goldin a Damien Hirst

Nella Galleria dello Scudo 15 opere dell’artista abruzzese risalenti agli anni Ottanta, ora della collezione del mercante romano

Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore

Nell’incisione c’è chi copia e chi traduce | Franco Fanelli

Nell’incisione c’è chi copia e chi traduce | Franco Fanelli