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Nicola Salvioli

© Massimo Sestini

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Nicola Salvioli

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Nicola Salvioli, restauratore di metallotecnica

Da Firenze, dove risiede, sovrintende a restauri che possono finire in Iraq come a Ferrara o Venezia, oltre a essersi preso cura di molti capolavori fiorentini

Michela Moro

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Nicola Salvioli è un restauratore specializzato in bronzi, armi, armature, oreficerie, tutto ciò che è metallo. Da Firenze, dove risiede, Salvioli sovrintende a restauri che possono finire in Iraq come a Ferrara o Venezia, oltre a essersi preso cura di molti capolavori fiorentini, quali il «Putto con delfino» di Andrea del Verrocchio e la «Giuditta e Oloferne» di Donatello a Palazzo Vecchio; il restauro dei 16 bronzi della fontana del Biancone e la statua equestre di Cosimo I in piazza della Signoria. 

In occasione della Biennale dell’Antiquariato ci spiega l’interesse dei restauratori per la mostra.

Che cos’è per lei restauratore la Biaf? 
È un’occasione per vedere ciò che non posso vedere nei musei, qualcosa di nuovo. È un bel confronto con gli antiquari e con i collezionisti, ogni edizione ho almeno uno o due restauri che vanno là. Mi piace mettermi in silenzio a fianco di un’opera che si è restaurata e sentire i commenti, si impara. Bello portarsi a casa i complimenti ma anche le critiche, sono spesso costruttive.

Che cos’è la metallotecnica? 
La metallotecnica è un’arte complessa ed è sempre stata molto costosa. Prima di fare una statua in bronzo una città faceva i cannoni per difendersi o per attaccare; quindi, bisognava essere una committenza ricca e l’artista ingaggiato doveva essere in grado di gestire economicamente e nel tempo un’impresa del genere. Fare un bronzo necessita di molte persone e molte energie: anche solo per smontare un’armatura ci vogliono quattro mani, impossibile farlo da soli.

Attualmente sta seguendo gli studi preliminari al restauro del monumento equestre del Gattamelata in piazza del Santo a Padova, realizzato da Donatello in bronzo tra il 1446 e il 1453.
Per questo progetto mi è servita la grande esperienza del restauro del Cosimo I, in piazza della Signoria, opera di Giambologna, perché se dal basso non pare, quel gigante sono 78 quintali di bronzo! Siamo entrati nel cavallo e nel cavaliere, abbiamo risolto le problematiche statiche, meccaniche, di conservazione delle superfici, poi abbiamo dovuto alzare il cavallo perché c’erano dei problemi di connessione col basamento. Sono secoli di informazioni, senza contare gli interventi precedenti.

Come sta il Gattamelata? 
Il Gattamelata sta male, perché è un’opera di Donatello, che non è Giambologna il quale progettava anche il minimo dettaglio. Donatello è un estroverso, un virtuoso, a volte quasi improvvisa, ha un altro genere di approccio. Il bronzo è intonso, non è mai stato restaurato veramente, e si porta il carico di 550 anni all’aperto, e il clima di Padova non è quello di Firenze.Ha problemi di vecchiaia.

Quali sono le criticità da affrontare? 
Un monumento equestre è qualcosa di unico, un’avventura, una sfida per lo stesso artista che non avrà una seconda o terza occasione. Sono prototipi che non hanno istruzioni, si scoprono studiandoli di volta in volta. Nessuno ci lascia mai le modalità di movimentazione, le caratteristiche peculiari o le delicatezze.

Altra sua specialità è il restauro delle armature.
Erano oggetti d’uso per un’azione violenta, quindi si consumavano, si rompevano e non si facevano tante storie a sostituire un pezzo. In Italia si privilegia un restauro conservativo, che rispetta l’integrità storica delle armature, mentre gli anglosassoni e i tedeschi tendono a favorire un restauro più ricostruttivo e integrativo, riflettendo le diverse tradizioni culturali dei collezionisti. Sono tecniche diverse perché una statua si fonde e un’armatura si forgia, è qualcosa di molto complesso. L’armatura di un signore costava molto più di una statua, era come avere un carro armato oggi. I personaggi storici importanti possedevano più armature per diverse situazioni, per andare in nave, a cavallo o combattere a terra. Queste suite di armature erano raramente complete, poiché spesso i pezzi venivano persi, smontati o vandalizzati, costantemente aggiornati per adattarsi alle nuove tecnologie belliche. Un’armatura poteva durare 60-70 anni, ma veniva modificata per migliorare la protezione contro le nuove armi. Con l’introduzione delle armi da fuoco, le armature divennero sempre più pesanti e protettive per offrire una copertura adeguata contro i proiettili. Con il miglioramento delle armi da fuoco in grado di penetrarle, le armature iniziarono a diventare obsolete. 

Michela Moro, 25 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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