Lewis Bush
Leggi i suoi articoliI package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.
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Nonostante sia considerata sempre più democratica e accessibile a tutti, la cultura rimane un ambito colmo di divisioni: una di queste è la distinzione tra cultura «alta», la quale comprende quei prodotti, intellettuali o fisici, che sono oggetto di stima e grande apprezzamento (ma che spesso esercitano un fascino ristretto) e cultura «bassa», la quale viene denigrata, un po’ paradossalmente, proprio per il suo appeal popolare. La fotografia è nata chiaramente dalla parte «bassa» di questa divisione: inizialmente diffamata da artisti del calibro di Charles Baudelaire, che la descrisse come «un rifugio per pittori falliti», è poi entrata gradualmente nel regno rarefatto della cultura «alta» grazie al riconoscimento del valore artistico di alcuni tipi di immagini fotografiche.
I videogame, al contrario, si collocano generalmente nella parte bassa del divario culturale, in quanto medium che di rado viene trattato con la dovuta attenzione, nonostante sia diventato un settore di tendenza molto redditizio (che secondo alcune stime vale quattro volte l’intero mercato dell’arte). Forse a causa di questa divisione, la fotografia e i videogame sono raramente discussi sullo stesso piano; anzi, i sostenitori di uno raramente sono fan particolarmente accesi dell’altro. Ciò è davvero curioso, perché in realtà i due linguaggi hanno molto in comune e molto più da offrire l’uno all’altro di quanto non sembri a prima vista. Il critico ceco-brasiliano Vilém Flusser una volta ha definito l’atto di fotografare simile al gioco degli scacchi, in cui il giocatore cerca costantemente nuove possibilità di difesa e di attacco che possano spiazzare e sorprendere l’avversario. Flusser scrive che «così come egli gioca con i vari pezzi, il fotografo gioca con l’apparecchio. L’apparecchio fotografico non è un utensile, ma un giocattolo, e un fotografo non è un lavoratore, ma un giocatore» [1].
L’analisi di Flusser non è del tutto priva di problemi. Il suo concetto di gioco affonda le radici nell’epoca dei giochi da tavolo; inoltre, la sua stessa argomentazione è una sorta di «mossa di gioco» nel campo della critica fotografica, dove, come ha notato Pierre Bourdieu, anche lo scrittore (come il fotografo) pianifica linee di attacco e di difesa, cercando di spiazzare gli avversari intellettuali pur mantenendo le proprie difese. Ma nelle parole di Flusser si trova anche il nucleo di un’idea interessante, quella di un interscambio molto più formale tra gioco e fotografia, interscambio che è stato raramente esplorato e che potrebbe rivelare alcune scoperte affascinanti.
Il campo dove ciò risulta più evidente è senza dubbio quello visivo. Mentre la grafica dei primi videogiochi veniva disegnata a mano a partire da singoli pixel, risultando quindi tutt’altro che «fotorealistica», l’estetica di quelli più recenti deve molto alla fotografia e alla cinematografia, ed emula spesso i meccanismi della macchina fotografica, anche quelli che i fotografi cercano spesso di evitare: effetti ottici come il lens flare, la profondità di campo, l’aberrazione cromatica, persino la grana e il formato, sono sempre più spesso applicati ai videogame, a tal punto che non è raro leggere nelle recensioni che la grafica di un videogioco è «cinematografica», «simile a un film» o «a una fotografia».
Con il rapido progresso della progettazione grafica, i videogame si sono affidati in larga misura proprio alla fotografia e alle campionature fotografiche per produrre texture accurate e realistiche, portando gli sviluppatori a notevoli sforzi per raccogliere questi dati da luoghi del mondo reale. Per esempio, per un gioco recente, ambientato nella zona di alienazione di Chernobyl, gli sviluppatori si sono spinti a recarsi sui resti radioattivi della centrale per raccogliere campioni di texture dai luoghi che volevano ricreare nel gioco. Altri sviluppatori, come quelli di Infinity Ward, l’azienda dietro la serie di enorme successo «Call of Duty», sono soliti utilizzare tecniche derivate dalla fotografia, come la fotogrammetria, come punto di partenza per il rendering di complessi oggetti 3D, con un dettaglio e una precisione che richiederebbe settimane di lavoro per essere costruito manualmente da un 3D artist.
Nemmeno gli sviluppatori prevedono
Questi esempi possono sembrare banali, ma a volte operazioni di questo tipo vanno a sconfinare nella pratica della fotografia d’autore, invadendola e appropriandosene. Qualche anno fa ho scritto di un videogame che sembrava aver utilizzato una fotografia del conflitto dei Balcani, realizzata da Ron Haviv, come materiale di partenza per una grafica ingame, mentre nel 2017 un altro fotografo ha fatto causa a uno sviluppatore per aver usato le sue immagini come fonte di ispirazione senza una chiara autorizzazione o un indennizzo.
I videogame hanno certamente un debito estetico nei confronti della fotografia che spesso non viene sufficientemente riconosciuto, ma può succedere che si spingano anche oltre nella loro attenzione a questo linguaggio. In alcuni esempi il «gioco della fotografia» di Flusser diventa letteralmente un sotto-gioco all’interno delle meccaniche più ampie del mondo videoludico. Ciò è particolarmente evidente in quelli che vengono chiamati sandbox games, definiti dalla loro qualità creativa e dalla libertà data ai giocatori di esplorare e interagire con il mondo virtuale in cui è ambientata il videogame. Uno dei più noti, la serie «Grand Theft Auto», all’interno della sua più versione più recente ha persino incorporato uno smartphone, completo di fotocamera che il giocatore deve utilizzare per alcune missioni e interazioni.
Questi giochi sono talvolta utilizzati in modi che nemmeno gli sviluppatori possono prevedere: per esempio, è nata la cosiddetta in-game street photography, attività in cui i giocatori, armati solo di una fotocamera, si aggirano nell’inferno urbano della città fittizia di Los Santos, alla ricerca di effetti modernisti di luci e ombre. Le immagini che ne derivano, raffiguranti gli abitanti impoveriti della città, richiamano facilmente alla mente la critica pungente di Susan Sontag nei confronti del fotografo di strada, assimilato a una sorta di turista urbano, sollevando importanti questioni etiche: per esempio, quanto è importante la rappresentazione quando ciò che viene raffigurato è un insieme di pixel, piuttosto che una persona viva e vegeta?
Ci sono altri videogame in cui la fotografia ha un ruolo centrale. Tra questi, «Polaroid Pete» (2002), in cui il giocatore controlla un paparazzo mentre evita gli ostacoli e fotografa le persone più interessanti, e «Afrika» (2006), in cui il giocatore veste i panni di un fotoreporter assunto per scattare immagini di vari animali del continente. Quest’ultimo è notevole per il modo in cui le fotografie vengono «punteggiate», costituendo quindi un elemento importante della dinamica di gioco, sistema sul quale è facile immagine che Flusser avrebbe avuto delle opinioni interessanti.
Nel corso del tempo, i videogiochi hanno quindi prestato attenzione alla fotografia e hanno indubbiamente imparato qualcosa da essa. Ma la fotografia ha ricambiato il complimento? La risposta è solo ultima, a malincuore, e in termini di massima possibilità, un secco no. Cominciando ad affrontare il discorso da ciò che la fotografia ha imparato dai videogame, è giusto menzionare il fatto che alcuni fotografi stanno esplorando sempre di più le potenzialità di «immaginari sintetici», utilizzando la grafica fotorealistica dei videogiochi per indagare questioni relative alla verità, alla finzione e alla produzione di immagini.
Non si tratta di una novità assoluta: artisti come Harun Farocki hanno utilizzato immagini tratte dai videogame da diversi decenni. Forse l’unica cosa che è cambiata è la tendenza preoccupante a utilizzare il fotorealismo delle immagini artificiali per ingannare e fuorviare il pubblico. Penso ad esempio al recente progetto di Jonas Bendiksen «The Book of Veles», che utilizza immagini costruite per creare una falsa narrazione sulle fake news in una città macedone: questo lavoro è stato persino presentato a un importante festival di fotogiornalismo che ha interpretato gli scatti come prodotto della realtà, senza realizzare che fosse tutta una finzione.
Ma venendo al tasto più dolente, forse è più interessante chiedersi che cosa la fotografia non abbia imparato dai videogame: a mio avviso, la fotografia ha trascurato quelle innovazioni narrative che i videogame hanno, se non creato, certamente reso popolari. Mentre i primi giochi avevano una trama limitata, è sempre più diffusa l’aspettativa che anche i videogiochi più popolari siano narrativamente complessi e offrano agli spettatori scelte multiple che possono modellare il corso degli eventi. Non si tratta solo di un’esperienza di gioco elaborata (gli scacchi, dopotutto, sono uno dei giochi più complicati al mondo, con un numero di mosse possibili superiore a quello degli atomi nell’universo osservabile), ma del mondo virtuale che viene messo in scena, nel quale i giocatori sono invitati ad entrare e ad abitare.
Anche la fotografia, in un modo o nell’altro, racconta sempre una storia
Anche la fotografia, in un modo o nell’altro, racconta sempre una storia. Può essere una storia relativamente semplice, fatta di eventi e azioni, oppure una storia fatta di idee. Spesso si tratta di entrambe le cose. Eppure, considerando l’importanza fondamentale della narrazione per questo medium, è sorprendente che i fotografi non siano stati più ambiziosi nell’esplorare metodi alternativi per offrire agli osservatori la possibilità di intervenire sulle storie che raccontano. Anche dopo quasi due secoli dalla sua invenzione, la fotografia si avvale mediamente di una narrazione banale e didascalica, più simile a una favola per bambini che a un grande romanzo.
Sarebbe facile dire che stiamo paragonando due cose radicalmente diverse, e che la rigidità di gran parte dello storytelling fotografico sia il risultato di come funziona il mezzo stesso, anziché una scelta di chi lo usa. Ma questo non è vero. La fotografia è diversa da molti altri media: è un camaleonte straordinario. Non c’è un «habitat naturale» in cui si può incontrare, ma ha la capacità di mutare forma in contesti diversi, adattandosi agli aspetti di ogni ambiente. La fotografia è a suo agio sulle pareti di una galleria, sulle pagine di un libro o sullo schermo di un cinema, ma sarebbe un errore da principianti pensare che in ognuno di questi ambienti si comporti allo stesso modo. Essa cambia forma per assumere le qualità di ogni spazio in cui appare, e nel processo vengono assorbite anche le possibilità narrative di ogni mezzo. Dal punto di vista narrativo, un libro fotografico come The Moor di Robert Darch e un cortometraggio come «La Jetee» di Chris Marker parlano entrambi, vagamente, della stessa cosa. Ma ciascuno crea la sua storia in modi radicalmente diversi, guidati dalle differenze specifiche tra un libro e un film.
Ciò che colpisce è che quasi tutti i media in cui è presente la fotografia sono stati impiegati per creare esperienze interattive in cui gli spettatori compiono delle scelte. Parlando di libri, ci sono i romanzi «scegli la tua avventura» che molti di noi hanno letto da bambini, oppure altre forme letterarie ancora più sperimentali, come ad esempio l’opera di scrittori d’avanguardia come Julio Cortozar o B.S Johnson. Anche nel mezzo cinematografico, relativamente poco flessibile, ci sono stati esperimenti con film e serie televisive in cui gli spettatori sono stati in grado di dirigere la direzione della trama, raggiungendo anche «le sale» di Netflix. «Black Mirror: Bandersnatch» (2018) di Charlie Booker, ad esempio, è stato un film veramente interattivo, con molteplici finali possibili, dietro cui si cela un commento sull’illusione dell’interazione e della libera scelta (ironia della sorte, la storia del film stesso è incentrata su un team di persone che lavora allo sviluppo di un gioco interattivo).
Il fatto che sia quasi impossibile trovare esempi di fotografi noti che abbiano esplorato un’interattività di questo tipo, sembra dire qualcosa non sulla fotografia come mezzo e su ciò che è effettivamente in grado di fare, ma piuttosto sulle persone che la usano. E forse questo ci riporta a quella linea di demarcazione tra cultura alta e bassa. La fotografia ha dovuto lottare per essere riconosciuta come arte e per trovare il suo posto nel regno dell’élite culturale, lotta che in realtà non è ancora del tutto finita.
È un paradosso che la fotografia, dopo aver conquistato un piccolo avamposto nel regno della cultura «alta», sia diventata allo stesso tempo profondamente conservatrice, almeno per quanto riguarda le modalità di narrazione. Mentre scattare fotografie è, come ha notato Flusser, un gioco di infinite possibilità, tali opportunità di scelta non vengono estese allo spettatore. E qui risiede la sconfitta della fotografia: se continuerà a rimanere aggrappata alle idee obsolete sulla partecipazione dell’osservatore nella produzione di significato, essa si atrofizzerà, fino a diventare nient’altro che un’altra «grande arte», rarefatta e avulsa dalle sue reali possibilità.
Lewis Bush è un fotografo, ricercatore e accademico. È stato direttore del Master Photojournalism and Documentary Photography presso il London College of Communication, University of the Arts, Londra. Attualmente è studente di dottorato presso la London School of Economics, dipartimento di Media and Communications, dove sta conducendo una ricerca sull’impatto dell'intelligenza artificiale sul fotogiornalismo.
Note:
[1] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006.
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