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«Opere d’arte: diciamolo chiaro, tutto fuorché beni rifugio»

Guido Rossi, avvocato, economista, collezionista e studioso di fenomeni culturali, è morto il 21 agosto all’età di 86 anni. Questo editoriale era stato pubblicato nel maggio del 1983 nel primo numero di «Il Giornale dell’Arte», di cui è stato collaboratore

Guido Rossi

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Dal saggio di Karel Teige del 1936, libri e articoli sul mercato dell’arte si sono succeduti con ritmo costante, divenuto ossessivo nei tempi più recenti: non manca quotidiano di levatura internazionale che non inserisca rubriche sul mercato dell’arte. In queste poche righe, che richiedono successivi sviluppi, intendo argomentare che il mercato dell’arte non esiste e soprattutto che l’arte non è un «bene rifugio», al quale è opportuno affidare i propri risparmi in periodi di cicli economici discendenti o caratterizzati da tassi di inflazione elevati. Ne consegue che, più propriamente, come recita il titolo, ma non il contenuto, del libro di Michel Seuphor, si dovrebbe parlare di «commercio dell’arte». È bene chiarire subito che fra mercato e commercio vi è una differenza notevole: laddove c’è mercato c’è sempre commercio; laddove c’è commercio non necessariamente c’è mercato.
Incominciamo dal mercato, il quale per esistere deve avere caratteristiche precise: uniformità, identità e fungibilità di merci da scambiare e rapporto fra prezzo e costo. 

L’opera d’arte non è mai, rispetto a un’altra, né uniforme, né identica, né fungibile. Voglio così escludere ogni riferimento anche alla sua riproducibilità tecnica e alla conseguente dottrina di Walter Benjamin che non serve certo a spiegare l’attuale situazione del rapporto fra arte e denaro.
Il mercato si fonda sull’elementare principio dello scambio fra un bene e un altro bene (baratto) oppure fra il bene e il denaro (compravendita).

Nell’economia moderna il baratto è forma di scambio superata, poiché non corrisponde ai requisiti fondamentali di un’economia di mercato: è invece ancora una delle forme di scambio abbastanza normali nel commercio delle cosiddette opere d’arte.

È dunque sotto un profilo sostanziale e organico che quando l’opera d’arte diventa merce essa non può costituire l’oggetto di scambio in un effettivo mercato: le mancano, infatti, i requisiti e fra quelli che ho menzionato soprattutto quello della fungibilità, oltre che quello ancor più essenziale di un qualunque possibile riferimento del prezzo rispetto al costo. Non posso qui approfondire questi elementari princìpi che toglierebbero non poco fascino all’oggetto artistico e al suo valore di scambio, il quale può arbitrariamente variare da zero all’infinito. Eppure s’è creato il mito del mercato dell’arte, intorno al quale prosperano protagonisti spesso cinici, facilitati nel loro operare dallo spostamento di ricchezza che la compravendita dei capolavori comporta.
Quel che più sorprende in questo contesto è l’accademico, a volte ermetico e spesso presuntuoso linguaggio di molti critici rispetto allo squallore di tanti intermediari che traducono l’opera d’arte in merce da vendere. Si direbbe che solo il paludamento vuoto degli uni giustifichi la volgarità degli altri. Inutile sottolineare che la combinazione peggiore si ritrova nel critico-intermediario cioè in quella figura, spesso brillante e mondana, di interprete e di broker d’opere d’arte, di intellettuale amico dei centri di potere economico.

Nella creazione del presunto ma inesistente mercato prosperano galleristi, case d’aste e altri protagonisti di più difficile definizione.
Quel che, tuttavia, impedisce di definire gli scambi di opere d’arte quali operazioni di mercato è l’assoluta mancanza di «trasparenza» di quel finto mercato. Per «trasparenza» qui si deve semplicemente intendere la conoscenza da parte dei possibili aquirenti di tutti gli elementi che riguardano l’opera e la sua valutazione. L’acquirente nella norma è costretto, invece, a operarare in situazioni che non può direttamente controllare, senza garanzia alcuna sulle attribuzioni, spesso anche autorevolmente «fabbricate», sulle provenienze, sulle valutazioni reali, sull’effettivo prezzo e così via.

Gli utili dei mercanti e delle case d’aste sono, nella maggior parte dei casi, sconosciuti, l’incontro della domanda e dell’offerta è quasi sempre se non simulato, quantomeno anomalo. Il mercato dunque, quale luogo di scambio aperto in cui si forma il prezzo, giusto o sbagliato che sia, non esiste.
La conseguenza principale sulla quale, in questo particolare momento dell’economia internazionale, è d’uopo riflettere, è che l’opera d’arte tutto può essere considerata fuorché un bene rifugio, che garantisca e difenda dall’effetto corrosivo dell’inflazione monetaria. In mancanza di un mercato «trasparente» diventa, infatti, problematico il disinvestimento a prezzi che consentano la qualifica dell’oggetto quale bene rifugio. La mancanza di trasparenza non si riferisce soltanto agli intermediari, ma anche alle case d’aste.

Gli intermediari, i galleristi, i mercanti sono a un tempo broker e dealer: questa duplice veste, che non appare mai all’esterno, rende ambigua la loro stessa professionalità. Le case d’aste non hanno alcun organo di controllo che garantisca lo svolgimento ordinato e corretto delle vendite, né si curano in genere di darsi codici di comportamento corretti: non è un caso che i loro regolamenti disciplinino quasi esclusivamente la mancanza di responsabilità, sotto tutti i profili, delle case d’aste stesse.

Il risultato è scontato: nessun bene acquistato a un certo prezzo sul mercato, può essere venduto a un prezzo sicuro. Ho detto sicuro, e non superiore o inferiore, poiché il mercato deve solo garantire che vi sia l’incontro effettivo fra domanda e offerta e che da questo incontro esista sempre la possibilità di una determinazione (veritiera) del prezzo. Determinazione non affidabile all’arbitrio o al capriccio del commerciante o delle simulate «battute» d’asta, spesso solo strumentali a confortare il prezzo praticato dal commerciante.

Chi ha acquistato a un prezzo non può mai essere sicuro di poter vendere a un prezzo al quale un altro acquirente sia disposto ad acquistare lo stesso oggetto. L’opera d’arte come bene rifugio diventa così una trappola. Chi crede di poter vincere la tendenza inflazionistica dello sviluppo economico e proteggersi con l’acquisto di beni rifugio che siano opere d’arte è partecipe di un grossolano anche se gigantesco commercio, in cui nulla è assicurato. Se non esiste dunque il mercato, pur esiste il commercio: e, osservava Baudelaire, il commercio è satanico. In effetti, da quando l’opera d’arte è diventata oggetto d’acquisto fuori del rapporto diretto committente-artista, la rispondenza dell’opera stessa col denaro è sempre più ambigua e opaca. Il commercio crea opere e artisti che poi distrugge, senza alcun criterio che non sia l’arricchimento degli intermediari. Conseguenza è l’ovvia e già sottolineata mancanza di tutela dell’acquirente, il quale può acquistare ad alti prezzi opere non più vendibili e cadere così nella trappola dell’opera d’arte come bene rifugio, senza rendersi conto che quest’ultimo esiste solo se accanto al commercio vi è la garanzia di un ordinato e trasparente mercato. 

Ma è allo studio di questo commercio, il quale non è nuovo, il quale è sempre esistito sia pure in modi diversi, che è opportuno dedicarsi ed è con l’attenzione dovuta che si deve impostare, fuori degli schemi usuali, il rapporto opera d’arte-denaro, smascherando le simulazioni che intorno a questo rapporto si creano. Le vicende di Tiziano e Filippo II, piuttosto che del console Smith coi veneziani, non sono meno educative di un’asta di Sotheby’s o di Christie’s, come studi recenti e meno recenti hanno dimostrato. Svelare quali sono i sottili legami che si intrecciano nello sviluppo antico ed attuale del rapporto arte-denaro, potrà portare non poco giovamento anche al vero apprezzamento dell’opera d’arte.
 

Guido Rossi, 01 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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