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Francesca Interlenghi
Leggi i suoi articoliL’archivio del critico, storico e curatore di arte moderna e contemporanea Luca Massimo Barbero è recentemente approdato all’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia. «Un gesto nella sua accezione semantica più ampia, lo ha definito il presidente Roberto Cicutto, che sconfigge in maniera chiara la concezione di un archivio a cui si lascia qualcosa perché venga solo conservata». L’Archivio Storico conferma così la volontà di istituirsi come luogo sempre più aperto, vitale e generativo, e sempre più incline a ospitare archivi e fondi, anche di terzi, che affrontano i temi legati alle arti contemporanee. Con l’intento di valorizzare questa nuova acquisizione, la Biennale ha inaugurato lo scorso 16 novembre, nella sua sede di Ca’ Giustinian, la mostra dal titolo «Luca Massimo Barbero. Un Diavolo Amico», introdotta da un testo di Nicolas Ballario. Abbiamo rivolto qualche domanda a Barbero per approfondire le ragione della sua scelta.
Professor Barbero, vorrei iniziare ragionando sull’etimo della parola archivio. Dal greco «archè», il termine significa al contempo luogo dell’inizio, del cominciamento, ma è anche luogo dal quale si istituisce l’ordine. Come convivono e si armonizzano questi due aspetti nel suo archivio?
Ordine è una parola che pensavo di non conoscere e paradossalmente, grazie a questa richiesta della Biennale che mi onora, mi sono scoperto invece piuttosto ordinato. Per prima cosa ho riconosciuto io stesso che parte del mio archivio, quello che va dal 1985 ai primi anni 2000, era già «liberamente» strutturato come tale. Può essere paragonato a una specie di arcipelago fatto di grandi isole. A ciò si è aggiunta la rivelazione di un «ordine» che, alla maniera di Boetti, è insieme «disordine» e che è conseguenza dell’averlo messo a disposizione degli altri. Soprattutto degli studenti che magari, proprio sovvertendo quell’ordine, diventeranno studiosi. Al contempo però, l’archivio è anche una culla, un cominciamento, perché in un mondo pieno di informazioni e senza memoria l’idea di creare degli «inciampi» è come seminare, come voler, attraverso queste «testimonianze», costellare il percorso di tante piccole trappole. Questa direi la doppia chiave di lettura dell’archivio.
Proprio la Biennale ci tiene a definirlo un archivio vivente e in continua evoluzione, enfatizzando una funzione che trascende il momento passato e lo unisce, lungo un’unica direttrice, con quello presente e futuro.
C’è un’attitudine, anche negli studi accademici, a considerare la memoria come un fatto passato, ancora foscoliano, di rimembranza. E questo non è il senso del mio archivio, che vuol essere legato al tempo presente. C’è una idea di documenti come fossili, quella delle lapidi potremmo dire, e poi c’è una visione altra, che è quella delle immagini. Se interrogate, non solo da un punto di vista filologico, esse vivono la contemporaneità attraverso chi le osserva e le interpreta, anche con l’ausilio degli archivi. È una questione a cui tengo molto perché lo studio della storia dell’arte, che è giustamente filologico, non deve mai però essere imbalsamatorio. Quello che io chiamo l’«inciampo», e che non trascura la ricostruzione del tutto, è l’incespicare nella cronologia pura e sterile, così che l’immagine si possa rivelare nuovamente e le giovani generazioni possano vedere qualche cosa di vitale in quello che stanno analizzando. Quando, sedotti dalla curiosità, accade di inciampare lungo la direzione storico artistica che si è intrapresa, rialzando lo sguardo capita sempre di vedere le cose in modo nuovo, più pulito, senza il ronzio di dover necessariamente riordinare quello che c’era prima. Quando le idee vengono categorizzate e qualcuno le chiama ortodossie, diventano appunto ortodosse, certificate, prive di dubbi e finiscono per fossilizzarsi. È facile confondere allora la rigidezza per coerenza, la noia per serietà. Ma la vitalità del mio archivio riguarda anche il fatto che gli artisti con cui ho lavorato lo implementeranno con l’apporto continuo del loro materiale. Mi piace questa idea di un opificio colmo di attrezzi, dove più che sporcarsi le mani ci si sporca il pensiero. Dove si spostano le idee preconcette della storia dell’arte.
Che ruolo ha avuto l’istituzione veneziana nel suo percorso di formazione?
Come ha detto un amico, io sono un piemontese diventato più veneziano di Marco Polo, per via dei miei innumerevoli viaggi presumo. Venezia è la mia città, è un luogo meraviglioso dove formarsi e a cui tornare. Due scuole sono state fondanti per la creazione del mio immaginario. Quella di New York a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta con il MoMA, dove era possibile attraversare la storia dell’arte da Cézanne fino quasi alla contemporaneità, o il Metropolitan, dove invece era possibile attraversare trasversalmente le civiltà e le loro culture. L’altra è stata Venezia con la Biennale, la manifestazione che coglieva e raccontava tutta la contemporaneità. Per me, ragazzino curioso, rappresentava la possibilità di viaggiare senza spostarmi, il luogo in cui vedere in diretta ciò che accadeva nel mondo e dove coglierne alcuni temi per poterli sviluppare in studi, mostre, incontri. Senza dimenticare l’Archivio Storico, collocato allora a Cà Corner della Regina, che era anche quello un viaggio per contrasti e ossimori, durante il quale ci si poteva letteralmente abbeverare con libri, documentazioni, ricerche e scavi dall’arte contemporanea alla cinematografia. Per me la Biennale è tutte le Biennali, è una sorta di grande universo popolato dal cinema, dal teatro e dalla musica, oltre che dalle arti visive. Si capisce allora dove affondi le radici questa mia alterità, un interesse plurimo, per dirla con Vedova, che emerge già nella prima mostra di Peter Greenaway, che ho curato, non ancora trentenne, a Palazzo Fortuny nel 1993. In quell’occasione mettevo insieme pittura, disegno, musica, da Michael Nyman a Philip Glass, inoltre il cinema e la tecnologia, una regia di tutto il palazzo compreso l’esterno, la computerizzazione già allora e le prime immagini ad alta definizione realizzate da Sony. Il tutto, mosso dall’intento di puntualizzare alcuni incontri tra le immagini e i loro creatori, compreso lo straordinario capitale artistico e scientifico che ci lasciava Mariano Fortuny con i suoi dipinti, le sue stoffe e il suo interesse per la fotografia e l’illuminotecnica per la scena e il teatro.
La mostra dà conto del suo metodo curatoriale, con immagini e materiali relativi ai suoi progetti più importanti. Tra gli altri, quelli con gli artisti Lucio Fontana, Carla Accardi, Anthony Gormley, Shirin Neshat, Tomas Saraceno, Arcangelo Sassolino, realizzati dagli anni Novanta ad oggi al Moderna Museet di Stoccolma, al Macro di Roma, al Guggenheim Museum di New York, alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia e alla Kunsthaus di Zurigo.
Il grande Portego, dove è esposta parte della mia fototeca, racconta gli allestimenti e le mostre e raccoglie i ritratti degli artisti legati alla Biennale. C’è quindi più che la storia dell’arte nel suo accadere, la testimonianza di quello che noi viviamo come curatori: l’ideazione, il dietro le quinte, la «messa in opera» che si chiama mostra per il pubblico. Ma negli appunti e nel resto della fototeca c’è anche la storia della vita: la politica, la guerra, la sopraffazione, il dolore, lo sport e l’abnegazione. Temi abbastanza insospettabili se non mi si conosce. È una forma di impegno e riservatezza al contempo, che credo esista anche in quello che qualcuno chiama il mio «metodo curatoriale-artistico». In una mostra, in una ricerca, in un testo ci deve essere tutto l’impegno possibile e un punto di vista personale, che però dovrebbe rivelarsi nel tempo come una grammatica. Dicono di me che non faccio allestimenti scenici ma che punteggio lo spazio con degli esclamativi e degli interrogativi. Cerco sempre di realizzare mostre che parlino a tutti, senza per questo mai abbassare il tono della conversazione. Il curatore non ha il ruolo di dimostrare sé stesso, ma deve fare da ponte tra l’artista e il pubblico. È una sorta di antenna, un dispositivo emanatore. È interprete ma non è mai traduttore. È, semmai, regista di un grande attore. E poi una mostra deve essere necessaria, devi sentirne il desiderio di conviderla con un pubblico nuovo, talvolta sperando sia finalmente quella «sbagliata». Come quella su de Chirico a Palazzo Reale di Milano di cui, dopo decenni, ho sentito la necessità di ripresentare il lavoro in una chiave completamente dedicata ai giovani, in uno sbaglio cronologico e tematico che si è rivelato invece un’apertura. Aprire, non solo gli occhi, questo penso sia importante.
Quello che si evince dai documenti esposti, dagli innumerevoli schizzi, dai cataloghi, dagli appunti e dai fax che ho conservato, è una vitalità collettiva, un senso di partecipazione comune che coinvolge tutte le persone con le quali lavoro alla realizzazione di un’idea, di una visione, siano registrar, studiosi o grafici. Al di là dei grandi momenti di cui questa mostra vuole anche essere testimonianza, emerge il fatto che ci siamo tanto divertiti. Ed è un’altra mia peculiarità nell’approccio a questo mestiere, perché troppo spesso si confonde serio con noioso. Studiare, immaginare e curare mostre sono momenti di grande serietà, che richiedono tantissima fede, ma soprattutto è un mondo vivo che deve far ridere. È un gioco personalissimo e collettivo, giocato con grande serietà perché ritengo sia anche una responsabilità sociale.
Nella sala chiamata «Spazio Bimbi» è presentato un mondo noto a pochissimi, che dice di un Barbero inedito: quello impegnato nell’attività didattica alla Scuola Holden di Torino, il fotografo della nazionale di lotta greco-romana o il cacciatore di immagini del progetto decennale «Candidi Come Colombe Astuti Come Serpenti».
Quello è lo spazio lasciato alla libera interpretazione del visitatore, dove si racconta molto e dove forse emergono gli aspetti più inediti di me. Ci sono una serie di disegni, ritratti quasi metaforici realizzati quando insegnavo alla Scuola Holden e ascrivibili all’idea di un circuito testa-mano, per cui illustrare i concetti significa comunicarli in maniera più efficace. E poi c’è il mio grande amore per la fotografia, una tappa quasi obbligata se pensiamo a quella alterità di cui dicevo poc’anzi. Come il progetto «Candidi Come Colombe Astuti Come Serpenti» che inizia nel 1994 quando con la Scuola di Dusseldorf si diffondeva questa sorta di gigantismo della fotografia, che pure amavo molto. Il mio intento era diverso, le fotografie infatti sono tutte molto piccole, quasi fossero un’incisione, e hanno la stessa dimensione del negativo. In altri termini, sono la trasposizione esatta di quello che vedevo nel mirino. Bisogna guardarle da vicino ed è interessante osservare come alcuni visitatori si limitino a gettare lo sguardo e altri invece, soprattutto i giovani, compiano un gesto di intimità, dedicando un movimento del loro occhio da molto vicino alla lettura di queste miniature. Ho sempre e solo fotografato persone, selezionate in maniera naturale sulla base di un reciproco riconoscimento, una consonanza di natura letteraria, storica o artistica, che non avevano mai posato davanti all’obiettivo e che perciò si offrivano con un certo timore. Ho smesso nel 2001, quando è nata l’altra forma di specchio, lo specchio della contemporaneità che è il telefonino.
Un ulteriore capitolo è poi dedicato allo sport, perché è stato centrale nella mia vita, un antidoto al troppo pensare. Lo sport lontano da quel glamour, se è la lotta greco romana o l’atletica, quale metafora dell’abnegazione e della dedizione. E infine una parete blu, che rivela tutti i miei modi per intendere questa città. Una raccolta inesauribile al pari del mio amore per Venezia. Sarà per questo che forse trovo così difficile concludere il libro intitolato a questo luogo straordinario e a cui sto lavorando da tempo, per questo amore senza fine. Ci sono autori come Roberta Orio, Arturo Martini o una foto per me emblematica, e molto divertente, di un elefante di un circo degli anni Cinquanta in una calle e ancora le immagini dell’«aqua granda» del 1966, che mostrano la nostra città devastata eppure disastrosamente bella. Fotografie che rimandano alla preziosità dei documenti, degli archivi, delle biblioteche. Al motivo per cui si è in quella sala, che la Biennale chiama già «Spazio Bimbi», che pare molto più leggera di quanto non sia in realtà e in cui c’è molto da scoprire. Ogni cosa è come se fosse un tasto, un cassetto da cui estrarre una parte dell’archivio per inoltrarsi in un altro spazio, uno spazio che cambierà a febbraio visto che l’archivio sarà visitabile fino alla tarda primavera. Visitarlo per me è come inoltrarsi in un altro spazio. È lo spazio della storia dell’arte, in cui non si viaggia mai da soli.
Nel libro Mal d’archivio. Una impressione freudiana (1995) Jacques Derrida scrive «non ci sarebbe certo desiderio d’archivio senza la finitezza radicale, senza la possibilità di un oblio». In che rapporto sta questo suo archivio con lei e l’idea cosmica della finitudine dell’essere umano?
La parola oblio non l’ho mai patita, proprio perché ho sempre frequentato gli archivi. Molte delle persone che si possono incontrare in questo archivio, come esseri umani non ci sono più ma io continuo a camminare con loro. Non in un senso fideistico o ultraterreno, è piuttosto l’idea del pensiero che diventa luogo d’incontro, un posto dove il tempo non esiste. In questo senso, l’archivio è per me una questione cosmica. «Fratelli sulla terra, sorelle nello spazio» recita la scritta rossa cucita di un lavoro che l’artista Aldo Grazzi mi ha dedicato e che sarà appeso a quella parete blu che ho menzionato. È proprio questa idea di esserci, a cui mi riferisco. Tutto quello che faccio, che dico, che espongo, che disegno o fotografo, credo non faccia parte di un archivio. Credo sia ciò che io amo di più: un immaginario. E un immaginario è possibile averlo solo se si è capaci di restituirlo. Se ci si limita a riceverlo, finisce per assomigliare soltanto a qualcosa. Ma io, non so se assomiglio veramente a qualcosa.



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