La ricerca di Teresa Pągowska occupa un posto significativo nell’arte polacca del dopoguerra. Nata a Varsavia nel 1926, si è formata alla Scuola Superiore Statale di Belle Arti di Poznán per poi insegnare all’Accademia di Belle Arti di Danzica e partecipare contestualmente a numerose rassegne internazionali, dall’Arsenale di Varsavia nel 1955 alla Prima Biennale al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris nel 1959 sino al MoMa di New York nel 1961 (in una mostra che presentava i più promettenti artisti del suo Paese). Scomparsa nel 2007, tre anni fa la sua ricerca è stata protagonista di una retrospettiva presso lo Spectra Art Space MASTERS di Varsavia (2022). La sede londinese di Thaddaeus Ropac ospita dal 14 febbraio al 2 aprile la prima mostra nel Regno Unito di Pągowska, «Shadow Self», con lavori prodotti nel corso di cinque decenni. A Varsavia dai primi anni Sessanta, l’artista ha sviluppato il suo caratteristico stile semi-astratto attraverso l’indagine della figura femminile. Quest’ultima è stata per lei soggetto privilegiato per delicate composizioni in cui aveva introdotto la tela, il supporto quindi, come elemento pittorico essenziale. Attraverso il motivo ricorrente dell’ombra, il percorso «racconta» lo sviluppo della pratica di Pągowska dai primi anni Sessanta alla metà degli anni Duemila con lavori delle sue serie principali, insieme a una selezione di carte.
Dipinti come «Senza titolo» del 1966, tutto giocato sulle varie tonalità del blu e dell’azzurro, e come «Senza titolo» del 1969, rivelano quella scomposizione tipica degli arti operata dalla pittrice che pareva assemblare frettolosamente su tela un deforme puzzle antropomorfo. Il richiamo alla figura femminile appariva comunque chiaro, soprattutto nella seconda opera in questione in cui la crocefissione è rappresentata attraverso due piani visivi capovolti l’un l’altro. Mentre la semplificazione delle forme, l’assenza della prospettiva e del chiaroscuro così come l’uso di colori vivaci e innaturali erano un probabile prestito dei Fauve, è all’Informale, a cui l’artista si avvicinò negli anni Sessanta, che si devono le soluzioni più originali della sua produzione. I corpi frammentati che fanno capolino qua e là sono anche il frutto del dramma della guerra, irrappresentabile agli occhi di chi l’aveva vissuta. L’olio su tela «Kąpiel (Bagno)», del 1974, mostra una figura stranamente compatta, priva di volto però, la cui ombra retrostante pare appartenere a un altro individuo. Dualità e mistero, luce e buio, forma e assenza sono concetti onnipresenti e che sostanziano una ricerca che si è evoluta nel tempo inglobando anche paesaggi, domestici ed esterni, animali ed elementi quotidiani.
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«Untitled» (1966). Cortesia di Thaddaeus Ropac, London · Paris · Salzburg · Milan · Seoul
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«Untitled» (1969). Cortesia di Thaddaeus Ropac, London · Paris · Salzburg · Milan · Seoul
Nelle stesse date di questa personale (14 febbraio - 2 aprile), la medesima sede propone anche Ron Mueck, geniale artista nato 68 anni fa a Melbourne, in Australia, da genitori tedeschi e ora di base nell’isola di Wight in Gran Bretagna. «En Garde», che è pure il titolo della mostra e che allude al comando di invito allo schermidore ad adottare una posizione difensiva, è un lavoro del 2023 che sarà esposto per la prima volta nel Regno Unito. L’opera era stata concepita come edizione unica per la terza mostra personale di Mueck alla Fondation Cartier di Parigi (2023), e successivamente esposta alla Triennale di Milano e al Museum Voorlinden, Wassenaar nei Paesi Bassi (2023-24). Da Thaddaeus Ropac è esposta l’unica prova d’artista di questa formidabile opera: un monumentale trio di cani neri, alto quasi tre metri, con le orecchie tese e i garretti alzati.
Il gruppo scultoreo, realizzato con tecnica mista, «dimostra il passaggio di Mueck dai dettagli meticolosi della superficie al portamento e alla tensione; egli distilla la sua visione per mettere lo spettatore di fronte all’immediatezza e all’essenza di un incontro che, nel tipico stile di Mueck, lascia il pubblico libero dalla narrazione prescritta», si legge nel comunicato della galleria. Lo spettatore inevitabilmente partecipa alla tensione della scena e l’abile resa della postura dei cani e della loro stessa mimica non può che generare a chi li osserva un senso di allerta, smarrimento, paura. L’opera è meno dettagliata di quelle a cui l’artista aveva abituato quando, fresco della sua esperienza con gli Young British Artist, dettagliava ogni suo intervento con particolare realismo. Le dimensioni enormi dei cani, non fossero già abbastanza minacciosi con la loro presenza, enfatizzano la vulnerabilità umana di cui Mueck, perfettamente consapevole, vuol fare emergere ogni sfumatura emotiva.