Stefano Miliani
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Anche nell’arte del nostro tempo siamo lontani dalla parità di genere, le artiste del passato perlopiù attendono ancora nei depositi, mentre uno sguardo femminile nelle manifestazioni artistiche non esiste. Sono, in sintesi, le opinioni che Ilaria Miarelli Mariani, direttrice dei Musei civici della Sovrintendenza capitolina e docente di Museologia all’Università «Gabriele D’Annunzio» di Chieti-Pescara, manifesta a «Il Giornale dell’Arte» in occasione del Festival del Giornalismo culturale 2024, focalizzato sullo «sguardo femminile», che si è tenuto nel Palazzo Ducale di Urbino (4-6 ottobre). Qui, nella sala degli arazzi della Galleria nazionale delle Marche, la studiosa nata a Roma nel 1965 ha partecipato a una conversazione con la direttrice della Galleria Borghese Francesca Cappelletti e con Raffaella Morselli, docente di Storia dell’arte moderna alla Sapienza di Roma, condotta dal direttore della Galleria nazionale dell’Umbria Costantino D’Orazio.
Professoressa Miarelli Mariani, quando sono state riconosciute le artiste e l’arte al femminile?
Credo che si sia cominciato però c’è ancora moltissimo da fare e non è assolutamente vero che siamo arrivati a una parità di genere. Anzi: siamo ancora veramente sotto la soglia del 50%. Parlo anche delle artiste contemporanee. Le Guerrilla Girls dagli anni ’80 denunciano quanto poche (pochissime) siano le donne esposte nei grandi musei.
In percentuale?
Sotto il 10%, forse siamo arrivati al 12. Si sta cercando di reinserire le artiste del passato nei percorsi espositivi, però Raffaella Morselli e io abbiamo curato la mostra «Roma pittrice. Le artiste a Roma tra il XVI e XIX secolo» (dal 25 ottobre a Palazzo Braschi a Roma, Ndr), e quasi tutte le opere vengono da depositi, non sono cioè esposte. E questo già la dice lunga. Alcuni musei stranieri, e ora si comincia anche in Italia, scrivono in didascalia che l’opera è di una donna: per esempio al Museo Carnavalet a Parigi e al Museo dell’Accademia di Brera le ho viste di un colore diverso. Si inizia a evidenziare che esistevano le artiste. I musei stanno acquistando loro opere, ma in Italia siamo ancora un pochino indietro.
Francesca Cappelletti qui a Urbino ha ricordato di aver trovato nei depositi della Borghese una Minerva dipinta da Lavina Fontana, di averla inserita nelle sale e ha citato Paola Della Pergola (1909-92), una donna che guidò il museo in anni lontani, dal 1949 al 1973.
È vero, una donna, però avendo studiato un po’ la storia della critica posso dire che nel ’900 le storiche dell’arte andavano a lavorare al Ministero, in Soprintendenza, e non all’Università che era ben più prestigiosa ma accoglieva soprattutto gli uomini, i quali erano quasi sempre mariti di queste donne. Un collega, Patrizia Dragoni dell’Università di Macerata, sta cercando di studiare Paola Della Pergola e sembra che non esista neanche una fotografia. È complicatissimo ricostruire il suo lavoro straordinario. Ad esempio, è stata forse la prima a impegnarsi nella didattica nei musei.
All’Università si guadagnava di più?
Allora sì. Ora magari con i direttori dei musei speciali no, ma si guadagna di più rispetto a un funzionario. A volte la carriera universitaria era preclusa. Un esempio: Evelina Borea, una grandissima soprintendente, moglie di un grandissimo studioso come Giovanni Previtali.
In arte esiste uno sguardo femminile diverso dal maschile?
No, non esiste, non sono d’accordo con chi pensa che le artiste siano diverse nel loro sguardo. Nel passato c’è stato uno sguardo femminile semplicemente perché alle donne si richiedeva quello per stare nel mercato, per guadagnare, per sopravvivere. Si chiedeva loro di realizzare la miniatura carina, l’oggetto, il merletto: è solo una questione culturale. Potremmo citare Louise Bourgeois o tantissime altre artiste contemporanee, come Marina Abramovic che è ancora più taglienti di molti uomini.
Secondo lei dovremmo adottare le quote rosa nei musei oppure, come è stato ventilato, creare un museo riservato alle sole artiste?
La questione delle quote rosa nei musei è molto dibattuta. Come hanno fatto nei Paesi del Nord, se non le imponi per legge certe cose non le ottieni: se non trovo le quote rose un obbligo ci vuole. Per esempio alcune Università adesso hanno imposto che nelle commissioni deve esserci per forza almeno una donna. Il modo in cui un uomo interroga un uomo o una donna è diverso semplicemente per cultura: dobbiamo ammettere che siamo stati educati in maniera differente. Ma credo molto nelle nuove generazioni, in quelle giovanissime. Quanto ad aprire un nuovo museo è complicato in assoluto, però spero vivamente di poter mettere in esposizione permanente nei musei della Sovrintendenza capitolina e riunire in un percorso quanto Raffaella Morselli e io siamo riuscite a tirare fuori. E vorrei dire un’altra cosa.
Prego.
In musei come la Galleria Borghese o i Capitolini non facciamo altro che vedere scene di violenza sulle donne. Le opere più famose sono il Ratto delle Sabine, tutti gli amori degli dei. Forse anche questa idea della violenza andrebbe più mediata: dovremmo spiegare che all’epoca era normale pensare di poter fare violenza sulle donne, oppure che si usava la storia biblica di Susanna e i vecchioni per dipingere una donna nuda. Forse dobbiamo cambiare le mentalità e in un museo si può fare tantissimo.
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