Stefano Causa e Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliDenti, bocche sdentate, e dentature terrificanti
Nel potente racconto di Edgard Allan Poe Berenice, il protagonista si innamora in modo ossessivo della protagonista quando essa è in fin di vita e, dischiudendo la bocca in un sorriso, mostra la chiostra dei denti perfetti e bianchissimi. L’uomo dal quel momento, non ha altro pensiero che per quei denti che desidera con «cupidigia frenetica» in un’ossessione erotica che diventa delirio. Vuole possedere i denti della donna pensando che in essi siano nascosti segreti pensieri ed idee che possano dare pace alla sua mente sconvolta. Ma essa nel frattempo muore, o così almeno pare.
Quello che capita dopo la morte di Berenice è puro orrore, l’uomo scenderà nel sepolcro per strapparle i denti ma la giovane è stata sepolta viva e, anche se sfigurata, respira nel suo sudario sanguinante e le sue urla scuotono la casa dalla fondamenta. Sul tavolo dello studio dell’uomo, in una scatola, saranno trovati i 32 denti estirpati che, come cose, vive rotoleranno sul pavimento.
Se vi riprendete dallo spavento procuratovi dalla lettura e cercate nell’arte un sorriso che rimandi a quello di Berenice, dovete frequentare le donne (peraltro estremamente pericolose) di Franz von Stuck e, in particolare, quella del «Peccato» più sconsigliabile del serpente dai denti appuntiti da cui è avvolta (Palermo, Galleria d’arte moderna). Di peggio c’è solo la «Donna Vampiro» di Edward Munch (Oslo, Nasionalgalleriet) intenta a sgranocchiare la testa di un malcapitato amante: anche lei è rigorosamente da non frequentare.
Per restare fra denti peccaminosi si può guardare al la teoria del «quinto incisivo» su cui a lungo si è soffermato nei suoi libri Marco Bussagli. Un dettaglio spesso impercettibile ma molto interessante. La presenza in dipinti e sculture sacre di un dente in più, il quinto incisivo centrale, che anticamente veniva considerato il «dente del peccato» o «dente bastardo», in realtà dal punto di vista odontoiatrico ha un nome ben preciso: mediodens (presenza di denti in sovrannumero).
Si tratta di una simbologia utilizzata in Italia nell’arte medioevale ma particolarmente evidente nelle opere di Michelangelo dove compare spesso questa anomalia anatomica con un quinto incisivo che spicca al centro della bocca della sibilla Delfica della Cappella Sistina o del Cristo della Pietà Vaticana. Ma perché il Cristo viene scolpito con un incisivo in più, oltretutto un «dente del peccato»? La spiegazione teologico-simbolica afferma che così egli prende su di sè tutti i peccati del mondo.
E poi ci sono dentiere sgangherate come quella del teschio, dentatissimo, di Adamo che sugge avidamente il sangue di Cristo in Croce nel «Crocifisso» di Giotto di Santa Maria Novella a Firenze, o quello che fa altrettanto in una magnifica croce dipinta del Trecento della Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia. I teschi tracannanti si collegano direttamente alla leggenda secondo cui Adamo sarebbe stato sepolto alla sommità del Golgotha. Nella sua bocca, prima della sepoltura, fu messo un seme dell’albero del bene e del male da cui germinò la pianta il cui legno poi utilizzato per la croce di Cristo: il ciclo della Redenzione fu così completo.
I denti sono raffigurati in arte come accessori necessari dei ritratti, dall’infanzia alla vecchiaia; dal «Bambino sorridente» di Francesco Caroto (Museo Castelvecchio Verona) al giovane «Violinista che ride», a piene ganasce, di Gerrit van Honthorst, alla tremenda «Vecchia» di Giorgione, impietosamente sdentata e sull’orlo della morte. Lo stesso Caravaggio si autoritrae con denti molto mal messi anneriti e cariati nella testa di Golia sostenuta da Davide nella celeberrima tela della Galleria Borghese.
Nei ritratti di personaggi di rango raffigurare con i denti in vista, belli o brutti che fossero, è sempre stato ritenuto disdicevole e la gran maggioranza dei personaggi abbozza sorrisi stirati in stile «Gioconda» e non apre assolutamente la bocca per non perdere la propria dignità.
E poi ci sono gli innumerevoli quadri che rappresentano cavadenti, quasi tutti così orridi da far ringraziare Dio in ginocchio di essere nati in tempi in cui l’odontoiatria è diventata una scienza con tutti gli annessi e connessi. I patriarca di tutti i quadri del genere è il «Cavadenti» attribuito (attribuzione discussa) a Caravaggio di Palazzo Pitti a Firenze: una vera e propria scena di orrore. Gli olandesi che bazzicavano l’Italia per imparare pittura, trovando il tema particolarmente a loro confacente, ci si tuffarono dentro e dipinsero poi centinaia di queste scene. Seguirono poi gli inglesi, i francesi, gli americani, e noi italiani non fummo certo da meno.
L’ultimo dei terrori dentari, visto che con il terrore abbiamo cominciato, è quello della vagina dentata di cui parla Sigmund Freud, disquisendo circa le teorie dell’ansia da castrazione.
Era una leggenda che parlava di donne con vagine che contenevano denti con le quali erano in grado di uccidere o evirare il compagno, ed era diffusa in molte zone della terra: dalla costa nord-occidentale del Nord America all’Asia. Secondo molti studiosi il mito ha dato origine nell’Europa medioevale alla raffigurazione della porta dell’Inferno vista come una gigantesca bocca e così la ritroviamo, pronta ad ingoiare i peccatori, nei celebre ciclo con la sequenza delle Virtù e dei Vizi della cappella di Santa Maria di Missione di Villafranca Piemonte (To). Eravamo però all’inizio del Rinascimento e quella bocca, pur grande e grossa, non faceva più tanta paura: è infatti mezza sdentata.
[Arabella Cifani]
Dente perdente
Tra i non innumeri primati della civiltà napoletana del ‘900 c’è di aver originato il primo parco giochi italiano. «Edenlandia», sorta nel 1965 nei pressi della Mostra d’Oltremare in viale Kennedy, la migliore (e peggiore) gioventù di Napoli e contorni ha pagato il debito nei confronti di un capitolo ludico e del costume di casa che ha un luogo nella storia del secolo scorso.
Vi ci sono ritornato in queste settimane rendendomi finalmente conto di una cosa tanto ovvia quanto, per un bambino negli anni ‘70, altrettanto misteriosa: il faccione tridentato del Maniero cosiddetto casa Fantasma è filiazione dell’orco cinquecentesco di Bomarzo, a suo modo il primo parco a tema della nostra storia! Salvo che, nell’arco quadricentenario dal viterbese a Napoli, si è aggiunto un molare. Porte manieristiche dentate a parte, la storia dell’arte ha corteggiato la sedia del dentista.
Vi allude una delle perfette metafore longhiane: incastonata dentro una delle più belle pagine della letteratura italiana tra le due guerre. In uno scorcio di Officina Ferrarese 1934 sul paesaggio di Ercole de’ Roberti, «genio numero tre della pittura ferrarese», il mago Longhi scava dentro «l’inimitabile scenario caduco di rocce friabili, lebbrose, brune e oro, su cui oscillano, come in dentiere corrose, le città vetuste, malariche, spopolate».
Ad altra occasione rimanderei l’analisi dei riferimenti al contesto contemporaneo affioranti da questo passo; ma, nel prosieguo, i nostri lettori sanno bene che su questioni di denti si sono rotte o cariate le migliori amicizie. Lo sa bene una conoscitrice come Mina Gregori che per prima difese a tutta donna la paternità caravaggesca del «Cavadenti» delle Gallerie fiorentine di Palazzo Pitti.
Centrata o meno, l’attribuzione avrebbe potuto contribuire a svecchiare l’idea ricevuta del finale del maestro lombardo. Niente da fare: i caravaggisti fecero la faccia feroce e, come nei Misteri della Jungla nera di Salgari, «digrignarono i denti». Di nuovo, secondo il codice vigente anche nel microcosmo degli storici d’arte, il pregiudizio prevalse sul giudizio. La Gregori come sempre aveva avuto coraggio e a rendergliene atto, subito dopo Gianni Testori che aveva accolto con entusiasmo l’attribuzione, fummo noi napoletani.
Quanto a me non saprei dire quanto un film come il «Maratoneta» di John Schlesinger, visto di straforo nel 1976, abbia assodato la fobia, certo largamente condivisa, per la camera del dentista; ma in questi anni ho imparato che, da un certo momento, il ’600, soprattutto dopo e oltre Caravaggio, è un affare di denti guasti. Cariati, spezzati e gravanti su gengive minate dalla piorrea.
Di renderli con compatimento frammisto a una punta di compiacimento s’incarica un supremo stilista spagnolo, Ribera, il quale, impiantatosi a Napoli, rimette al centro del dibattito di intendenti e amatori il primato della bella pittura che Caravaggio aveva ammanettato tra parentesi. Mentre i piedi dei pellegrini del Caravaggio erano rozzamente esposti al popolo, in primo piano Ribera impone il satiro scuoiato lentamente da Marsia. Ossia meglio: lo spettacolo splatter della chiostra dei denti dell’animale morente. Natura malata più che morta. Il passaggio stilistico e culturale dal sintetismo del Caravaggio al realismo lenticolare di Ribera si misura, corporalmente, nella salita o discesa dai piedi ai denti.
A Capodimonte il «Sileno Ebbro» del 1626 è una macchina carnale e olfattiva che va letta, come una pagina, dalla dentatura asinina su cui Ribera indugia con talento veterinario. Al Louvre il pitocco del 1642 che chiede l’elemosina per l’amore di Dio ha un vistoso difetto nel piede e la peggiore dentatura della storia dell’arte. In Ribera il gusto per le rovine comincia precisamente da qui come fu chiaro quando, sulla copertina della mostra «Civiltà del ‘600 a Napoli» (1984), sineddoche dello spirito del secolo, comparve uno scugnizzo a bocca aperta di Ribera. Venti di guerra? Piuttosto aliti.
[Stefano Causa]
«Pas de Deux»
Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)
Le mani
I piedi
Le labbra
La passerina
Le tette
Gli occhi
I membri maschili
I nasi
I sederi
Le orecchie
I denti
I capelli
Le schiene
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