Stefano Causa, Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliSeni. Occhi. Bocca. Mani. E labbra. Sederi e inguini. Si può raccontare una storia dell’arte anche attraverso le parti del corpo. Abbiamo provato a farlo in questa serie spegnendo internet e riallenando il muscolo della memoria. Non è vero come dicono che cultura è tutto quel che rimane quando uno si è dimenticato tutto? Ecco. Tra storia e immaginazione, lavorando di accoppiamenti giudiziosi e nuovi nessi abbiamo provato a ripensare perché le labbra di Pino Pascali e del logo degli Stones sono la sineddoche della sensualità contemporanea più estroflessa e aggressiva. E perché i piedi e le mani siano un valido indicatore non solo dello stile di un artista ma una cartina al tornasole del realismo occidentale. Oggi che viviamo stagioni di narcisismo autoreferenziale interrogarsi sul corpo, e non solo sui lati a e b, ci sembra urgente. Oltre che doveroso.
L’alluce di Rosso
Ho sempre pensato che il «Cristo» di Rosso Fiorentino a Boston sia uno dei quadri più belli del mondo. Ma chi me lo ha fatto vedere davvero è stato Carlo Del Bravo, scomparso cinque anni fa e con cui commisi l’errore di non laurearmi. Ogni giovedì faceva un’esercitazione di attribuzione presso l’ateneo fiorentino mettendo nel carrello una dozzina di diapositive. Faceva rimpicciolire e trasformare le immagini in uno studio fotografico come oggi faremmo in un secondo col cellulare. E si era applicato anche su quella tavola databile intorno alla metà degli anni 1520, ricavandone il dettaglio del piede piegato. Uno di quei dettagli espressivi di cui andava pazzo Malraux. L’alluce di Rosso incarna, per sineddoche, il lato più sconcertante ed eversivo dello sperimentalismo anticlassico e dimostra come l’espressività di un volto, se accompagnato dal resto del corpo, cominci dai piedi. Nessuno lo riconobbe a colpo. Non io.
Il fatto è che, nudi o calzati, non è che i piedi fossero, nei tardi anni 1980, la prima cosa cui guardassimo per riconoscere lo stile di un maestro. Non se ne abbia a male Morelli. Morboso, erotizzante, omoerotico: era chiaro che quel Rosso, di fronte al quale i bacchi romani di Caravaggio esplicitano rotondamente i termini di un’offerta che qui procede per allusioni, andasse letto dal basso. Tecnicamente dall’alluce che cresce aumentando nel tornante del ginocchio che invade illusionisticamente il nostro spazio e del corpo che si curva come un cetaceo spiaggiato.
Tre secoli e mezzo dopo un maestro tedesco come Menzel calibra un primo piano del proprio piede che un pittore del Cinquecento non avrebbe potuto dipingere da solo. La più bella natura morta di piedi, un anticipo di Lucian Freud e che, nel 1876, spinge a riavviare la pittura europea non solo lungo la corsia preferenziale dell’Impressionismo. Oggi, insomma, è il turno dei piedi. Ma sento che già bussano alla porta Dürer, Leonardo, Raffaello o, in pieno Settecento, quel Benefial che, nella «Santa Margherita da Cortona» di Santa Maria in Aracoeli, fa spuntare, sugli assi del tavolaccio, due piedi adunchi già ghermiti dalla morte.
Basterebbe molto meno per tirare in ballo il passo del Pasticciaccio di Gadda, 1957, in cui si dice che la «storia gloriosa della pittura nostra…è tributaria agli alluci. La luce, e gli alluci, sono ingredienti primi e ineffabili d’ogni pittura che aspiri a vivere, che voglia dire la sua parola, narrare, suadere, educare…». Chissà se il malizioso accostamento tra luce e alluci fosse presente a Marco Giusti quando, nel 1996, intitolava «E l’alluce fu» una raccolta di gag e monologhi di Benigni.
Elogio dei piedi nei quadri (nei libri o nelle canzoni). Un giochino non malo per farci dimenticare per un minuto la recrudescenza del virus e i calciatori che divorziano, sarebbe immaginare una visita agli Uffizi o a Capodimonte mettendosi dalla parte dei piedi. Come uno si avvicinasse a un complesso musicale partendo dalla sezione ritmica: Coltrane da Jones, gli Stones da Watts, gli Zeppelin da Bonham e, naturalmente, Davis da Williams. Vero è che, se di storie dell’arte fatte coi piedi ne abbiamo incontrate più di una, di resoconti dalla parte dei piedi non ne ricordiamo altrettanti. Ma è un peccato.
L’invenzione del realismo è una questione di piedi. Si faccia un confronto tra la «Croce» di Arezzo e quella di Santa Maria Novella zoomando sui suppedanei. Antinaturalistiche e stilose le dita di Cimabue sono affusolate come dita delle mani. I piedi di Giotto sono più umani e più veri (ma quanta parte di orizzonte fantastico è andata persa in questa presunta promozione). Per scendere di un secolo, nulla spiega la ripresa di Masaccio della misura degli antichi meglio del particolare del piede del Battista nella tavola, oggi a Londra, dal polittico della Neve.
Quel piede - il più stentoreo del Quattrocento - fa il suo sporco mestiere. Radicato al suolo è il sintomo di come, nell’Umanesimo, l’arte fosse incavicchiata alla realtà. Poco male se fiorellini ed erbe siano calpestati. Per ritrovare un prato stile arazzo bisogna correre ai Botticelli degli Uffizi. I quattordici piedi, di scorcio, di piatto, nel primo piano della «Primavera» sono il bignami del Piede moderno, l’affiche di uno studio di podologo. Magri, passano tra i fiori senza calpestarli.
Nell’arte italiana successiva i piedi sono sempre leggiadri e candidi. Raffaello, che ha imparato a farli dagli umbri, appronta il suo codice pedestre nella «Madonna del Cardellino», un quadro del tempo fiorentino, dove il piede della Vergine raddoppia, rimpicciolendosi, in quello del Bambino. Sono piedi odorosi di talco, da centro estetico. Dal Reni al Sassoferrato ai pompier francesi saranno i piedi per antonomasia. Perché i piedi comincino finalmente a puzzare bisognerà aspettare l’oltranza di Caravaggio. E su questo gli scrittori sono concordi: come fai a non notare i piedi fetenti se uno te li calibra in proscenio?
Baglione e Bellori parlano di piedi fangosi e sozzi per il primo piano della Madonna dei Pellegrini (e che dire della «Crocifissione di San Pietro» dove i piedi sono affettati da strati di sporco come non fossero stati lavati dal concilio di Trento?). Caravaggio a parte, l’apoteosi dei piedi sporchi si celebra nelle sale di Capodimonte dedicate ai seguaci di Ribera. Quelli sono quadri che puzzano e in un quadro che puzza la prima cosa a puzzare sono i piedi. Dopo si riprenderà a lavarli: se non nella realtà sicuramente nei quadri come se i pastori e i pellegrini volassero e non si sporcassero né camicia né pedalini.
[Stefano Causa]
Lavatevi i piedi
L’importanza e il significato dei piedi sono sottolineati da tutti i testi biblici e il lavare i piedi ai pellegrini o agli ospiti era considerato un gesto fondamentale dell’ospitalità degli antichi: Abramo nell’ospitare gli angeli lava loro i piedi prima di farli mettere a tavola come si vede nel cinquecentesco piatto di ceramica di Urbino della Collezione Freddi oggi in deposito a castello di Mantova. Lo stesso capitò al guerriero Giosuè di fronte all’angelo a capo dell’esercito di Dio che gli intima perentoriamente di levarsi i calzari perché il luogo dove cammina era santo. Ed effettivamente presso molti popoli l’ingresso in uno spazio considerato sacro si fa senza scarpe poiché il gesto indica l’uscita dal profano e il passaggio a un livello superiore dello spirito.
Togliersi le scarpe (anzi i sandali) è un gesto preciso, e a Mosè viene imposto sul monte Horeb direttamente da Dio innanzi al roveto ardente: il suolo che calpesta è sacro e così lo ritroviamo, ad esempio, in un dettaglio di un affresco di Botticelli per la Cappella Sistina.
Non lavarsi i piedi era invece segno di lutto e di dolore, e se Dio castigava lo poteva fare partendo dalle piante dei piedi fino al sommo del capo come capita al povero Giobbe che si copre di ulcere proprio dai piedi alla testa. Ma forte è anche la valenza erotica dei piedi e il Cantico dei Cantici esalta la bellissima Sulamita (nella quale si è voluta ottimisticamente vedere la sposa di Cristo) con vigorose espressioni di ammirazione per tutte le sue abbondanti grazie ma anche e soprattutto per i piedini calzati da bei sandali e con tintinnati ciondoli alle caviglie (e la Sulamita di Gustave Moreau ne sa qualcosa).
E poi arrivò Cristo e i piedi presero anche altri significati. Maddalena glieli lavò con le sue lacrime e li unse in segno di adorazione rispetto e pentimento ricavandone fama imperitura e santità nonché un posto privilegiato nella storia dell’arte che ha rappresentato questo episodio centinaia di volte, Su questo tema è difficile fare una scelta fra la tela più bella e quella più singolare. Quella di Romanino con la Maddalena infilata completamente sotto al tavolo come un gatto per la chiesa di san Giovanni Evangelista a Brescia attira per la particolarità della scena (i piedi di Gesù oltretutto non sembrano molto puliti); mentre Maddalena ai piedi di Cristo (Musée d’Orsay) dipinta nel 1891 da Jean Beraud, con messa in scena verdiana, riesce invece ancora a scuotere lo spettatore, anche se i piedi di Cristo non si vedono visto che la penitente ci si è buttata sopra.
Innumerevoli sono poi le scene in cui Cristo lava i piedi agli apostoli, un gesto anche questo rivoluzionario e che riporta i piedi in primissimo piano con il chiaro invito simbolico a lavarsi i piedi gli uni con gli altri, ovvero a sostenersi, aiutarsi e amarsi reciprocamente. Un gesto al tempo riservato ai servi e che non molti di noi anche oggi farebbero con facilità. Sappiamo che Pietro protestò e che Cristo gli rispose avvisandolo che senza quel gesto non sarebbe entrato nel Regno dei Cieli. Entriamoci anche noi nel regno dei cieli con alcuni di questi quadri. Certo, prima di tutti Duccio da Boninsegna, e chi altro? Una meraviglia colorata di uomini arruffati ed agitati dove i sandali neri sparsi in giro sembrano scarafaggetti.
Il prodigioso Tintoretto del Prado dove in un dopo cena disordinato (alcuni apostoli sembrano anche aver alzato un po’ il gomito), in un imbarazzo generale, tutti si tolgono calze e scarpe o sandali per finire sciacquati da Cristo una tinozzona in primo piano. Un Battistello Caracciolo della Certosa di san Martino di Napoli dove il pittore tiene alta la sua non comune competenza teologica in una tela post caravaggesca articolata e ritmata e dove pare di sentire rimbombare le voci degli apostoli nell’ampio spazio oscuro che li circonda. In primo piano, tanti piedi, tutti i piedi dei seguaci di Cristo, tutti di diversa tipologia, giovani, vecchi, bitorzoluti, stanchi, gonfi: tutta la vita li attraversa.
E poi un preraffaellita: Ford Madox Brown con una tela che mi ha sempre incuriosita con un Cristo nerboruto con le maniche rimboccate che con un grembiule asciuga i piedi di Pietro mentre gli altri apostoli si scalzano (c’è anche Giuda che ha dei brutti piedi) e si turbano in un’atmosfera inquietante.
Anche l’Ascensione di Cristo al cielo è stata una grande occasione per piedi santi che in questo caso volano via. Nella pittura e miniatura del Nord Europa la scena trionfa, con apostoli e Vergine che osservano Gesù sparire fra le nubi. Di lui si vedono solo più i piedi e questo capita in quadri come quello di Hans Suess von Kulmbach del Metropolitan di New York o in decine di miniature francesi, tedesche e fiamminghe e, fra le tante, quella di un miniatore del basso Reno che ci lascia anche le impronte dei piedi di Cristo sulla montagna da cui ha spiccato il volo.
E ancora, per finire, Dalí nella incredibile «Ascensione» del 1958 del Museo di San Diego in California: Cristo missile supersonico si è staccato da terra, sta per entrare in orbita celeste e di lui vediamo in una prospettiva scorciatissima il corpo e in primo piano due piedi grandi e perfetti, puliti, regolari, stabili e sicuri.
[Arabella Cifani]
«Pas de Deux»
Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)
Le mani
I piedi
Le labbra
La passerina
Le tette
Gli occhi
I membri maschili
I nasi
I sederi
Le orecchie
I denti
I capelli
Le schiene
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