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Francesca Interlenghi
Leggi i suoi articoliSi intitola «Al di là del vetro» la prima personale che la Galleria Raffaella Cortese dedica dal 25 novembre al 26 febbraio a Edi Hila (Shkodër, Albania, 1944). Una mostra che condensa, nei tre spazi della galleria, i tratti salienti della poetica di un artista che è stato un testimone della storia sociale e politica dell’Albania e che ha saputo attribuire alla pittura non solo valore documentario, ma filosofico e vitale, trovando in essa una connessione con l’esperienza del pensiero e dell’esistenza. Gli oggetti, le architetture urbane, le superfici che permeano il reale, perfino la luce che si infiltra a delineare gli spazi, si adagiano sulla tela con la compostezza della cose ordinarie e comuni dentro le quali Hila cerca la verità. Con un linguaggio silenzioso, capace di rivelare il mistero che si annida tra le pieghe della vasta fenomenologia del reale.
Lei si è formato all’Accademia di Belle Arti di Tirana agli inizi degli anni Sessanta, trovando nelle lezioni di Danish Jukni l’unico accesso possibile alla conoscenza dell’arte contemporanea nell’Albania del regime comunista di Enver Hoxha. Negli anni Settanta e Ottanta è stato costretto a lavorare in un campo di rieducazione nell’industria del pollame e solo dopo la caduta del comunismo, negli anni Novanta, è tornato a dipingere definendo stile e contenuti della sua pratica. Si potrebbe dire che le sue immagini pittoriche, liberate da virtuosismi ed eroismi, siano un omaggio alla vita quotidiana, agli oggetti concreti e alle situazioni comuni dell’esistenza?
Vengo da una formazione tradizionale e tipicamente realista, tanto che siamo tutti diventati realisti in quegli anni di studio all’Accademia di Belle Arti di Tirana. Realizzare un’opera significava eseguirla secondo il modello che avevamo davanti, fosse esso un nudo o una natura morta. I miei quadri nascono da questi insegnamenti, da questa estetica, sono cose concrete. Forse, l’unico momento in cui metto l’accento sulla mia soggettività è quando creo quel piccolo gioco concettuale dentro l’opera che permette allo spettatore di interpretarla liberamente. Soprattutto dopo l’avvento della democrazia in Albania, tra la fine degli anni Novanta e specialmente negli anni Duemila, la pittura è diventata il mio modo di osservare la realtà, di osservare le cose che mi impressionavano. Vivevamo, dal punto di vista storico e sociale, una fase molto importante; il Paese sperimentava la libertà, nella comunicazione e negli spostamenti, dato che si poteva uscire dai confini per la prima volta dopo la dittatura. Un momento dinamico e ricco di energie positive, ma caotiche. La mancanza di organizzazione, l’inosservanza delle leggi, il venir meno del rispetto degli uni verso gli altri: era in atto una transizione in cui nulla aveva ancora preso forma ed è stata proprio quell’assenza di forma stabile ad alimentare la mia creatività. Anche nelle nuove opere, esposte in questa mostra, il mio sguardo fissa la realtà ma è una realtà profondamente condizionata della pandemia. Mi piacerebbe che attraverso questo realismo, attraverso il pittoricismo di questo momento storico, si rendesse manifesto, si sentisse, anche qualcosa del modernismo.
La tematica dello spostamento è stata centrale nell’ideazione di questa mostra. Subito dopo l’ultimo lockdown italiano del 2021, lei ha visitato gli spazi espositivi a Milano per poi iniziare a concepire l’esposizione da casa a Tirana dove ha ricostruito, in scala e con una maquette, la sede della galleria. Un trasloco non solo fisico ma anche mentale: la galleria ha smesso di essere solo spazio espositivo diventando un dispositivo di pensiero, un contenitore fluido per il montaggio e lo smontaggio di idee. Può raccontarmi la genesi e lo sviluppo di questa mostra?
Innanzitutto, quando ho cominciato a ragionare su questo progetto, ho pensato che non fosse giusto tradire le mie emozioni, la sensazione di non sapere bene cosa fare dovendomi misurare con una città e un contesto che non conoscevo e che non mi era dato nemmeno di conoscere poiché la pandemia mi limitava e ci delimitava tutti. Allora ho pensato di adottare lo stesso metodo della mostra precedente, quella alla Secession di Vienna, durante la quale erano in vigore le stesse restrizioni dovute al Covid-19: attraverso la realizzazione di un modellino, ho fatto portare il palazzo espositivo di Vienna a Berlino dove mi trovavo in quel momento. Anche in questo caso, grazie alla maquette, la Galleria Raffaella Cortese ha perso la sua connotazione fisica ed è diventata un luogo del pensiero, luogo per la sperimentazione. Ho poi dovuto fare chiarezza dentro di me e capire che questa riproduzione in formato ridotto doveva servirmi solo a livello di ispirazione, non dovevo copiarla e tanto meno dipingerla. Dovevo piuttosto selezionare i momenti ad essa legati: alcune volte erano incantevoli, altre drammatici, altre ancora poetici. Le riflessioni di Brian O’Doherty in merito al White Cube (lo spazio dell’arte contemporanea che si dilata fino a coincidere con il luogo fisico tout court, Ndr) sono state molto utili al punto che, estremizzando, ho dato a me stesso il permesso di conferire alla galleria un’altra dimensione, di individuare la galleria fuori dalla galleria, per le strade o nei boschi.
Tra i lavori in mostra anche quello del 1997 «People of the Future». L’opera racconta un fatto di cronaca, avvenuto quell’anno, che ha visto decine di migranti albanesi naufragare e perdere la vita nel tentativo di giungere sulle coste italiane. Vorrei partire da qui, dalla nave protagonista di questo trittico, per indagare con lei la questione degli oggetti, centrali in tutta la sua produzione e testimoni degli eventi, anche quelli più drammatici come i flussi migratori.
Ho dipinto la silhouette della nave e due cerchi bianchi. Potrebbero essere la polizia? O due piccole finestre? Ma non ci sono figure umane, sarebbe diventato facile inserirle e in qualche modo si sarebbe perso il mistero della situazione. Quello che mi interessava non era tanto il fatto di cronaca in sé. Mi interessava, ancora una volta, indagare il periodo di transizione di cui dicevo prima e di cui anche il fenomeno della migrazione ha fatto parte: il desiderio di trovare, una volta oltrepassate le frontiere albanesi, il mondo tanto immaginato, una speranza di salvezza. La transizione ha alimentato questi sentimenti nel popolo albanese, ma diversi sono stati i tentativi di sopravvivenza e spesso, senza essere così cruenti, hanno prodotto grande fermento creativo ed esiti interessanti, nuovi elementi estetici e oggetti dal design particolare. Si potevano trovare per esempio, ai lati delle vie, vasche per i pesci costruite con mezzi di fortuna, con listelli di ferro, lastre di vetro e tubi di plastica, da improvvisati venditori che provavano a guadagnare qualcosa o caroselli per i bambini fatti arrivare dall’Italia e piazzati senza autorizzazione ai margini di strade dense di traffico. Nel mio lavoro, gli oggetti si sono materializzati in molteplici forme per raccontare la realtà, in special modo quella della transizione.
La solitudine è certamente una condizione esistenziale ma forse è stata per lei anche una condizione artistica. Pochi i riferimenti durante la giovinezza, poi la condanna a lavorare in un campo di rieducazione e la conseguente impossibilità a condividere riflessioni e stimoli sull’arte. E recentemente, a causa della pandemia e dei lockdown, la questione dell’isolamento è tornata in maniera prepotente. Pensa che ci sia una qualche correlazione tra questo e la quasi totale assenza, nelle sue opere, della figura umana?
Non penso che questo abbia in qualche modo condizionato la mia produzione, sebbene certa critica dia per scontato che rappresentare la figura umana significhi, per contro, non rappresentare la solitudine. Ma non è assolutamente vero. Nel mio caso, dipingendo gli oggetti, ho potuto giocare più facilmente con la forma, i volumi e i colori. Il contenuto di ciò che dipingo non è predeterminato, nel senso che sono io a costruire il contenuto attraverso una combinazione di elementi differenti. Invece, quando dipingi un paesaggio il contenuto è già intrinseco nel paesaggio. E se dipingi un ritratto, allo stesso modo, esso ha automaticamente un contenuto ben definito. Con gli oggetti invece ho sempre sentito di avere più libertà, la possibilità di modificare, proporre e realizzare il mio contenuto.
La fotografia ha un ruolo determinante nel suo processo creativo, perché, dice lei stesso, le permette di analizzare in maniera più dettagliata cose che a un primo sguardo parevano insignificanti. Recuperando la lezione di Roland Barthes, lei non intende la fotografia come mezzo per riprodurre sterilmente la realtà, ma come emanazione del reale passato: essa ha valore documentativo non tanto rispetto all’oggetto quanto piuttosto rispetto al tempo. Me ne può parlare?
Nel mio caso la fotografia è un mezzo che facilita la registrazione del reale. A volte ci sono situazioni che mi impressionano e non so dire esattamente perché, ma sento che c’è qualcosa, magari di indefinito, che attrae la mia attenzione. Allora scatto una foto, vado a casa e la ripongo, e non ci penso più. Lascio in questo modo che sedimenti finché un giorno, riguardando quella stessa foto, scopro che mi dice cose nuove, cose che prima non avevo notato. Può anche capitare che certi dettagli, che in prima battuta mi erano parsi importanti, ora mi sembrino assolutamente secondari. Che cosa è successo? È passato il tempo. La fotografia allora diventa realtà. Una realtà che inizio a selezionare io, estrapolando, tirando letteralmente fuori, parti della fotografia e cominciando a organizzare, equilibrare, comporre. Ecco che, piano piano, affiorano tanti particolari a cui prima non avevo dato peso. In questo senso la fotografia mi aiuta e mi consiglia. Infine, stampo l’immagine e quando inizio a dipingere io dimentico tutto. La fotografia scompare. C’è solo la pittura.
Pare che la pittura, questa pratica apparentemente così poco innovativa, stia tornando di gran moda. E non so dire se sia in atto un cambio di paradigma, ma so per certo che questo linguaggio non si è mai spostato dalla sfera della sua indagine, della sua vita sarebbe più corretto dire. Posso chiederle, in chiusura, una riflessione su questo tema?
Non ho mai creduto che la pittura fosse passata di moda. Questa è stata una fantasia, un’attitudine formale e forse anche un po’ snob. I grandi artisti che hanno realizzato grandi opere vivono in un continuo presente, sono universali perché trascendono la distinzione tra ciò che è ritenuto contemporaneo e ciò che non lo è. Questi sono parametri funzionali al mercato, niente altro. Per me la pittura è una questione di sensibilità, di abitudine, che diventano indispensabili come l’acqua e il pane e non ne puoi fare a meno. Non puoi che esistere come pittore, perché sei abituato in questo modo. Come puoi negarlo? La relazione con il mondo ha sempre avuto per me questa dimensione reale figurativa. Immaginavo, prima di fare un dipinto. Ma lo immaginavo sempre con figurazione, non in modo astratto. Come avrei mai potuto tradire questo momento? Se dentro la pittura c’è la verità, se sai sempre come giustificare quello che fai, prima di tutti con te stesso, perché non credere in questo?

Una veduta della mostra «Edi Hila. Al di là del vetro» alla Galleria Raffaella Cortese di Milano. Courtesy of the Artist and Galleria Raffaella Cortese, Milano. Photo: Andrea Rossetti

Una veduta della mostra «Edi Hila. Al di là del vetro» alla Galleria Raffaella Cortese di Milano. Courtesy of the Artist and Galleria Raffaella Cortese, Milano. Photo: Andrea Rossetti

Una veduta della mostra «Edi Hila. Al di là del vetro» alla Galleria Raffaella Cortese di Milano. Courtesy of the Artist and Galleria Raffaella Cortese, Milano. Photo: Andrea Rossetti
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