A Paris Photo sono tutti contenti di essere tornati nella sede del Grand Palais: più spazio, più luce, più tutto. Anche se, fatto salvo il commento a mezza voce e occhi al cielo sull’esito delle Presidenziali americane, tutti osservano che il riscaldamento dell’edificio lascia molto a desiderare. Per il resto, la messa cantata del mondo della fotografia che conta procede secondo la sua liturgia quasi trentennale. Inutile cercare tendenze artistiche o di mercato, e si dovrebbe inventare di sana pianta. Così, per raccontare la fiera, meglio giocare ad assegnare gli Oscar. Un gioco divertente, che può essere l’occasione anche di dire qualcosa di serio.
Miglior «effetto wow»
Il visitatore che entra in fiera si trova davanti una lunghissima parete dove sono esposte tutti i 619 ritratti de «Menschen des 20. Janhrhunderts» (Uomini del XX Secolo) di August Sander. Si tratta di uno dei capisaldi della storia della fotografia e non era mai capitato che il lavoro venisse esposto nella sua interezza. È un’operazione della Galerie Julian Sander, che prende il nome dal bisnipote del grande artista tedesco. Sono stampe realizzate negli Ottanta e Novanta a partire dai negativi originali e secondo criteri filologici. Certo, il clima di una fiera non permette di dedicare il giusto tempo per godersi l’evento. Ma solo l’idea è da «effetto wow». Suggerimento per le istituzioni italiane: potrebbe essere un’alternativa all’ennesima mostra pacchetto dei soliti tre autori di Magnum.
Miglior allestimento
Lo stand più interessante è quello della galleria Nadja Vilenne, di Liegi. Lo spazio è occupato dalle immagini tridimensionali, sculture fotografiche che, forse forse, sono sculture tout-court. L’artista è Aglaia Konrad ed è nata a Salisburgo. Il progetto parte dalle immagini delle cave di marmo di Carrara, per poi prendere corpo in quattro installazioni in cui immagini di statue in pietra sono mostrate sulle facce di due pannelli che si intersecano in modo ortogonale. Si tratta di fotografie che provengono da un immenso archivio in espansione che l’artista usa per ricomporre associazioni visive che mettono in moto la memoria dello spettatore. La tentazione dei fotografi è spesso quella di uscire dai margini dell’ortodossia del medium e produrre un oggetto tridimensionale. A volte diventa un’ossessione. In fiera ce ne sono molti esempi. Questo è riuscito.
Miglior artista «emergente»
Una delle sezioni più interessanti della fiera è «Secteur Emergence», un progetto a cura di Anna Planas che raduna, sul ballatoio del Grand Palais, 23 mostre personali sostenute da giovani gallerie. Menzioni d’onore vanno a Karla Hiraldo Voleau, con Galerie Christophe Guye di Zurigo, Hélène Amouzou, con la Galerie Carole Kvasnevski di Parigi, e Jonathan Llense, con Espace Jörg Brockmann. Ma il premio principale va, per merito, ma anche per un briciolo di orgoglio nazionale, a Marina Caneve esposta da Montrasio Arte di Milano. Con «On the Ground Among The Animals» (2015-24), Caneve mostra di avere un grande passo, profondità e ostinazione. Parla del confine tra il mondo urbanizzato e il mondo selvaggio degli animali. Un confine che, in fondo, c’è anche dentro ciascuno di noi.
Miglior editore
Quest’anno il premio va non a un editore puro, ma al festival più frizzante del momento: Image Vevey. Per la prima volta partecipa alla fiera nella sezione dedicata ai libri perché, in tanti casi, le mostre che vengono ospitate nella cittadina svizzera diventano progetti editoriali. In alcuni casi i volumi vengono realizzati in collaborazione con editori importanti (nel caso di Kristin Potter avevano lavorato con Aperture). In altri casi, quando il lavoro è considerato valido, ma non trova un editore, Image Vevey ci mette del suo e pubblica il libro con il proprio marchio. Non è un caso che il premio per il miglior libro vada a Christian Patterson, protagonista di un’edizione del festival di alcuni anni fa.
Miglior libro
Il premio va a Gong Co. di Christian Patterson, edito da Tbw/Image Vevey. Si tratta di un libro dedicato al declino e alla decadenza di un negozio di alimentari a conduzione familiare nel cuore del Delta del Mississippi, da cui il libro prende il nome. L’attività è terminata, ma gli arredi, i prodotti, gli oggetti restano lì, fermi nel tempo. Secondo l’autore è la realizzazione della profezia di Andy Warhol: «Un giorno tutti i grandi magazzini diventeranno musei e tutti i musei diventeranno grandi magazzini». Il libro raccoglie le fotografie scattate tra il 2013 e il 2019, ma è realizzato come se esso stesso fosse un oggetto abbandonato e ritrovato nel negozio. Una riflessione sul destino sulla vanità del consumismo? Lo specchio del declino della società americana? O semplicemente un monito, come se fosse un memento mori? Probabilmente tutte e tre le cose.
Fotografia più bella
Qui siamo nel regno incontrastato dell’idiosincrasia. Si tratta dell’immagine che è riuscita, una nel flusso di un milione, a rapire la nostra attenzione. Per chi scrive è capitato più volte, per diversi motivi. Ma nel caso della fotografia di Pieter Hugo, che appartiene al progetto Californian Wildflowers (il libro è edito da Tbw), ci è capitato qualcosa di particolare. Il gesto della donna senza fissa dimora, con la felpa verde pisello, che manda un bacio al piccolo uccello che regge nella mano, ha qualcosa di particolarmente poetico: fa collidere trascuratezza ed eleganza, miseria e nobiltà, artificio e spontaneità. Hugo potrebbe gareggiare anche nella categoria «Miglior libro» e arrivare tranquillamente sul podio.