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Un'immagine dalla Viewing Room di una mostra della galleria Zwirner ora aperta a Hong Kong

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Un'immagine dalla Viewing Room di una mostra della galleria Zwirner ora aperta a Hong Kong

Per le gallerie la pandemia era già iniziata prima

L’inizio della «malattia» coincise con l’esponenziale crescita della popolarità dell’arte contemporanea

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Franco Fanelli

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La pandemia, per le gallerie, è cominciata molto tempo prima del Covid-19. Rispetto al Coronavirus era però più letale, capace di togliere il respiro a chiunque, vecchio o giovane che fosse. Diciamo che le sue manifestazioni risalgono alla fine degli anni Novanta. Come tutte le pandemie, nidificò là dove l’affollamento favoriva i contatti. Il paradosso è che l’inizio della «malattia» delle gallerie, cioè la loro desertificazione (la crisi della loro storica stanzialità), coincise con l’esponenziale crescita della popolarità dell’arte contemporanea. Si moltiplicarono
le biennali e il pubblico, compresi i compratori, cominciò sempre più a identificare l’arte dei nostri giorni come evento spettacolare, fenomeno sociale, allegorico viaggio transoceanico d’inizio secolo, su metaforici transatlantici che nella loro struttura interna rimarcavano le differenze sociali ed economiche (ogni riferimento al Titanic non è intenzionale).

L’arte e anche l’acquisto di un’opera divennero movida, festa, party, rumore, clamore, glamour. Tutto quanto, insomma, il raccolto ambiente di una galleria tradizionale, non importa se ancora moquettata o ubicata nella cattedrale protestante di un loft, non poteva offrire. I galleristi, in un mercato dell’arte ritmato da una festa permanente e globale, e sempre più simile a quello puramente finanziario, compresero che per sopravvivere avrebbero dovuto creare o partecipare alla festa, tramutarsi da stanziali «coltivatori» a nomadi «cacciatori», ed ecco proliferare le fiere che, non a caso, cominciarono da subito a fare di tutto per somigliare alle biennali. In questo mondo alla rovescia, per le gallerie la Fase 1 inizia proprio con l’unica cura possibile, il contrario di quanto prescritto nelle emergenze sanitarie reali, ovvero con il contatto sempre più ravvicinato e globalizzato con il pubblico dei grandi eventi. Una specie di immunità (dalla crisi) di gregge, da pagare però a caro prezzo.

Elenchiamo solo le voci più onerose: i costi di partecipazione alle fiere, ormai diventate irrinunciabili per la sopravvivenza; la necessità di farne il più possibile; il dover mantenere comunque, pena l’esclusione, lo status di galleria, cioè avere una sede espositiva fissa, quindi, sostanzialmente, pagare almeno due affitti; l’obbligo non scritto, infine, di sottostare a regole comportamentali, sociali ed estetiche, all’accettazione delle gerarchie, a un’attività diplomatica molto onerosa nei confronti delle grandi potenze galleristiche, pena l’esclusione, dal momento che coloro che decidono chi deve essere ammesso a una fiera o meno sono anch’essi galleristi.

La Fase 2 è durata quasi vent’anni ed è consistita nel progressivo allargamento del sistema fieristico, che tra l’altro si stava rivelando un buon veicolo per rispondere alla sempre maggiore aggressività delle case d’asta. Poi è arrivata la pandemia vera e propria, capace di mandare all’aria l’intero sistema economico e produttivo, figuriamoci il mercato dell’arte (che, tra l’altro, rappresenta soltanto un quinto nel volume degli scambi dei beni di lusso). Certo è che un virus potenzialmente letale è più che sufficiente a mettere in ginocchio un mercato che ormai si svolgeva in altissima percentuale nei pochi e affollatissimi giorni delle infinite fiere organizzate in tutto il mondo. L’annullamento della fiera di Basilea, già spostata a settembre, è solo il più eclatante tra i molti susseguitisi in questi mesi.

Comincia così la Fase 3: in tutto il mondo le fiere fanno di necessità virtù, anzi realtà virtuale. Diventano online in una fase in cui, va detto, buona parte del mercato si era già da tempo spostata su internet. Nascono ovunque piattaforme (o zattere di salvataggio costruite da galleristi di varia potenza, da Zwirner a De Carlo), per ospitare colleghi spesso più piccoli e dunque più bisognosi e che, privati anche delle fiere, non sanno più dove sbattere la testa. Nascono anche microfiere, come quella recentemente organizzata da Jeffrey Deitch. Si scopre che la Fase 3 funziona. Il pubblico non compratore vede comunque appagata la sua pulsione voyeuristica accedendo alle sacre stanze (persino ai prezzi); e si tratta di persone ormai scafate nell’internautica indipendentemente dall’età. Ma soprattutto si vende mica male. A chi dice che l’esposizione online e la visita virtuale saranno sempre e solo un surrogato, i cinici replicano che tanto il prodotto è così standardizzato e ripetitivo che è solo questione di sfumature.

Ma in fondo, il dato più importante è che per le gallerie l’online costa meno di dispendiose trasferte e locazioni di stand, per cui, al di là della fase acuta dell’emergenza sanitaria, potrebbe costituire un perfetto veicolo di vendita anche in vista di un 2021 in cui si tratterà presumibilmente di raccogliere i cocci lasciati dallo tsunami Covid-19, di fare la conta di quelli che potranno continuare con l’attività e, soprattutto, di fare economia. Senza contare ciò che un po’ tutti tendiamo a dimenticare: che alcuni eminenti galleristi cominciarono a manifestare i loro dubbi circa l’opportunità di partecipare ad Art Basel Hong Kong prima che il Coronavirus venisse individuato come un problema. Tentennavano perché le cause politiche ed economiche che lo scorso inverno avevano provocato i tumulti nella città porto franco dell’Estremo Oriente lanciavano pesanti ombre sul successo della fiera. Morale: il mondo sta cambiando molto velocemente; al di là delle ricorrenti epidemie, le contraddizioni e le crepe del neocapitalismo, le discriminazioni, lo sfruttamento delle risorse umane e naturali, la nuova povertà (ma anche quella vecchia) potranno avere conseguenze pesanti sul nostro stile di vita.

Eppure ritirarsi nel guscio del web rappresenterebbe la vera sconfitta di quei pochi valori (l’arte e la cultura) che spesso, proprio nelle epoche di sofferenza e difficoltà, danno il meglio di sé. Le stesse fiere hanno fornito eleganti e variegati palcoscenici capaci di divulgare, forse con maggiore libertà delle stesse biennali, molti artisti da scoprire: perché giovani o perché «dimenticati». Le gallerie italiane fanno bene, ora, a chiedere al ministro Franceschini maggiore attenzione ai loro problemi. Questo è il momento più difficile, ma forse anche quello più giusto per dimostrare quanto sia forte e credibile la motivazione sulla quale si regge la più recente petizione, firmata dall’Associazione di categoria, cioè il loro ruolo di promotrici di cultura. L’online è un ottimo dispositivo di sicurezza in tempi difficili. Ma diciamo la verità: non abbiamo tutti voglia di toglierci le mascherine e tornare a respirare normalmente?

Un'immagine dalla Viewing Room di una mostra della galleria Zwirner ora aperta a Hong Kong

Franco Fanelli, 01 luglio 2020 | © Riproduzione riservata

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Per le gallerie la pandemia era già iniziata prima | Franco Fanelli

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