Procopio Procopius
Leggi i suoi articoli«Caro Procopio,
Tutto è cominciato nel 2006. Ero con alcuni colleghi a un corso full immersion di lingua inglese, requisito necessario, la conoscenza dell’idioma internazionale del business, per passare dall’anonimato dello sportello alla funzione di consulente finanziario di un noto istituto bancario. Fu proprio una collega (che a dire la verità pareva a tutti noi un po’ sciroccata per certi discorsi che faceva sull’arte contemporanea), a trascinarci alla Tate Modern: “Alla Turbine Hall c’è un’opera relazionale di Carsten Höller, è semplicemente imperdibile!”, squittì.
Avevo 35 anni, una di quelle età di mezzo che periodicamente, nella vita, t’inducono a considerazioni e bilanci di varia natura: non più giovane ma non ancora appartenente alla temuta mezz’età, una moglie in carriera, uno studio legale di una certa rilevanza, una bambina di tre anni, un lavoro discretamente retribuito, la possibilità di un miglioramento professionale ed economico, le partite a calcetto con gli amici, i viaggi di rito nelle capitali europee (…). La Turbine Hall mi apparve come il set di un film di fantascienza tipo “Blade Runner” o “Matrix”. Più “Blade Runner” che “Matrix”. Cinque altissimi tubi si torcevano verso l’alto e in quei tubi per metà trasparenti si vedevano sfrecciare come in una folle pista da bob verticale individui di varia età, ma evidentemente in pieno orgasmo da ottovolante (terrore, eccitazione, urla, vertigini, velocità erano gli ingredienti e i condimenti di quella che in gergo, ma non lo sapevo ancora, si chiamava “esperienza”).
La collega ci spiegò che l’“esperienza” per essere tale doveva essere totalmente “partecipativa”, cioè comprensiva della discesa in quei toboga da parco acquatico, rispetto ai quali non mi era chiaro che cosa li sublimasse in opera d’arte. Fui l’unico, oltre ovviamente a lei, a non tirarmi indietro: la noia o semplicemente la competitività rispetto a quelli che oltre a colleghi sarebbero stati miei competitor nella mia ascesa professionale furono i moventi di quella decisione che avrebbe cambiato, in pochi secondi di liberatoria e vertiginosa ebbrezza gravitazionale, la mia esistenza. In un attimo compresi che l’arte contemporanea non era quella cosa pallosa che tutti cercavamo di scansare; non era un bluff; era una cosa utile e divertente ma soprattutto in grado di elevare il corpo e la mente trasportandoci in un’altra dimensione della realtà; un mondo parallelo ma non per questo rischioso come un derivato finanziario o un mutuo subprime, termini di cui di lì a un paio d’anni tutti avrebbero imparato a conoscere l’inquietante significato.
Sarebbe troppo lungo ripercorrere e descrivere le tappe di un vero e proprio crescendo emotivo, ma anche di quella che non esito a definire ascesi spirituale compiuta attraverso l’arte che penso sia limitativo definire soltanto “relazionale”. È qualcosa di più, qualcosa che forse è paragonabile soltanto al fervore, alla fede, alla ritualità propri di quella dimensione in cui la religione combacia totalmente con la spiritualità autentica. Un percorso che, come nella tradizione mitica, epica e religiosa, ha incluso la discesa agli inferi, come l’accesso al padiglione tedesco alla Biennale di Venezia del 2008, allorché mi sottoposi a due ore di coda per inoltrarmi nel labirintico e claustrofobico percorso costruito dall’artista Gregor Schneider affinché tutti potessimo, per usare le sue parole, “esperire la bellezza della morte”. Intanto, la crisi finanziaria, nel settembre di quell’anno, avrebbe messo alle corde tutta la nostra civiltà, costruita sul profitto e sulla speculazione.
Un cliente della Private Bank presso la quale lavoravo due anni dopo mi riconobbe per strada e, ridotto sul lastrico dal crollo azionario, mi aggredì a male parole e spintoni, umiliandomi di fronte alla mia bambina che scoppiò in lacrime e, a casa, raccontò tutto alla mamma, chiedendole: “Papà è un farabutto?”. Tre anni dopo non riuscii a raggiungere il budget imposto dalla banca presso cui ancora lavoravo e venni retrocesso, tornando all’inferno dello sportello. E venne il giorno del miracolo collettivo, quando Christo per 16 giorni, nel 2016, ci fece camminare sulle acque del Lago d’Iseo. Centomila fedeli si inoltrarono su quel pellegrinaggio tra Monte Isola e l’Isola di San Giorgio. Con compassione sopportai la derisione di un mio collega, uno di quelli che si era sempre preso gioco dell’arte contemporanea ma poi si era riciclato come art advisor per i nostri clienti più facoltosi, il quale mi ricordò che dietro quella prodigiosa opera di Land art c’era la moglie del discendente della più nota famiglia italiana costruttrice di armi.
Incassai il colpo, ma resto dell’idea che solo l’arte che non si piega all’umiliante identità di merce può rendere pura e autentica la passione di chi, come me, la ama. In questi anni mi sono immerso in un ecosistema creato da Pierre Huyghe in Norvegia (lo stesso artista, in un’altra opera, aveva monitorato il mio esercizio cerebrale durante l’attività immaginativa, ma non so perché non mi ha mai detto che cosa ci ha visto); grazie a lui e al suo collega Philippe Parreno ho avuto conferma che l’esperienza estetica può essere anche un’esperienza sociale.
Nel 2012, al Pac di Milano, non ho perso l’occasione di partecipare alla performance di Marina Abramovic, mettendomi in fila per potermi sedere di fronte a lei e provare a fissarla negli occhi; ma ho pianto dopo pochi secondi, una specie di eiaculatio praecox oftalmica. E intanto, grazie alla full immersion nelle opere di Ólafur Elíasson, ho potuto apprezzare la differenza tra biotico e abiotico. La tecnologia è davvero del tutto abiotica? Ho avuto solo un minuto per poterci riflettere accedendo all’opera immersiva di Yayoi Kusama a Brescia, qualche giorno fa. La donna che ha fatto la coda con me è la mia nuova compagna.
Mia moglie mi ha lasciato sette anni fa; non ne poteva più di sentirmi parlare dei libri di Bourriaud e della relazione tra estetica relazionale e immersività, dell’estatica contemplazione di un video del guru Bill Viola. L’ho rivista per caso all’Iper sabato scorso e mi ha detto che una sua amica mi aveva riconosciuto mentre giravo in tondo facendo il verso dell’ape durante una performance di Tino Sehgal. Mia figlia oggi ha 21 anni ed è iscritta alla Bocconi. Sabato lei e io siamo andati in pizzeria (offre lei, io ho perso il posto in banca). Quando ha ordinato il tiramisù, le ho chiesto se si fosse prima assicurata che il caffè, ingrediente fondamentale di quel dessert, fosse di provenienza equa e solidale. Dev’essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso (poco prima le avevo praticamente imposto di provare l’impasto speciale per la pizza privo di lieviti aggiunti, ottenuto con idrolisi degli amidi grazie al processo di autofermentazione del grano spezzato) perché è letteralmente esplosa, cercando di demolire la mia incrollabile fede performativa-relazionale-partecipativa.
Mi ha invitato a riflettere su quanto potenziale inquinamento possa produrre un’installazione immersiva come quella di Yayoi Kusama; sulla pubblicità che indirettamente fa a un mondo sempre più disumanamente digitalizzato e informatizzato (causa di perdita di posti di lavoro e di sfruttamento, compreso il mio) e a come tutto sia ipocritamente giocato sulla pelle di una persona che forse cinicamente o forse no si è molto giovata della sua disabilità mentale. Che ingrossando le masse di quelli che si avvicinano all’arte scambiando la cultura per intrattenimento faccio il gioco dell’arte che io disprezzo, quella sulla quale fa leva il mercato, arte che ha necessità di consenso generalizzato per disporre di palcoscenici sempre più ampi e diffusi (mi ha caldamente consigliato di leggere il saggio sul culto del divertimento di Siegfried Kracauer, nella nuova edizione di La massa come ornamento). “Vabbè s’è fatta una certa”, ha detto poi, dopo un’occhiata allo smartphone.
Tornato a casa, ho riferito la conversazione a Marta, la mia attuale compagna, che per fortuna ha un buon lavoro e ci garantisce un tenore di vita decente. Mi ha espresso la sua solidarietà e io le ho ricordato il giorno in cui ci siamo conosciuti, nel Padiglione Italia alla Biennale del 2022, quando alla fine del percorso (ovviamente immersivo) di Gian Maria Tosatti abbiamo pianto insieme commemorando le lucciole di Pasolini evocate dall’artista, teorico della Quinta Dimensione (avevamo già esperito con gioia il Terzo Paradiso di Pistoletto). Allora, rinfrancato, le ho parlato della possibilità di partecipare alle 100 ore di letture da Hannah Arendt annunciate da Tania Bruguera alla Hamburger Bahnhof di Berlino. Mi ha detto che è una cosa bellissima, ma che magari stavolta salterebbe il giro perché è un po’ stanca e che da qualche tempo soffre di fastidiosissimi mal di testa. Caro Procopio, sarà mica una scusa?»
Dichiarazioni di anonimo milanese
Kusama non è Leopardi e ci sono troppi led accesi per riconoscere le lucciole di Pasolini
«Caro lettore,
mi spiace per l’emicrania della sua compagna, alla quale porgo i miei sinceri auguri. Certo, lei è un vero appassionato. L’importante è non scambiare lucciole per lanterne: l’“Infinito Presente” di Kusama non è quello di Leopardi. Se poi le lucciole sono quelle di Pasolini, come ha voluto ricordarci Tosatti, mi pare (e forse lo pensa anche lui) che vi siano troppi led accesi per distinguere qualche altra forma di luce e di vita in fondo al tunnel».
Procopio Procopius
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