Virtus Zallot
Leggi i suoi articoli«Piccole storie dal Medioevo» è un ciclo di brevi saggi dedicati a temi di un Medioevo «minore» indagato attraverso fonti agiografiche, letterarie e iconografiche. Ne emerge un mondo in cui realtà e immaginario, sacro e profano, consueto e straordinario, dramma e leggerezza si integrano non senza ironia e con ingenuità solo apparente, a veicolare contenuti e insegnamenti mai superficiali: un Medioevo inaspettato e affascinante.
Narra Gottfried von Strassburg (XII-XIII secolo) che quando Biancofiore raggiunse Riwalin, ferito a morte, prima svenne di dolore ma poi lo abbracciò, donandogli le forze per riabbracciarla «fino in fondo, intimamente». In quell’ultimo e straziante abbraccio concepirono Tristano. Come indica il corrispondente termine latino «amplexus», l’abbraccio scritto e illustrato poteva infatti alludere e indicare il rapporto sessuale, rimandando a ciò che non sempre era conveniente citare o mostrare esplicitamente.
Nel «Trionfo di Vulcano» (1470 ca) di Ercole de Roberti, nel Salone dei Mesi in palazzo Schifanoia a Ferrara, è «amplexus» quello tra Ilia e Marte. Accucciati entro le candide lenzuola di un letto provvidenzialmente apparecchiato ma davanti a una grotta, non solo all’aperto ma entro una scena rumorosa ed affollata che sembrerebbe negare loro qualsiasi intimità, gli amanti si stringono e aderiscono, i corpi poggiati sui fianchi. Per quanto le coltri ne velino nudità e postura, sappiamo che si sono spogliati, per l’abito e la corazza levati deposti in bella mostra, in primo piano. Il rilievo conferito all’episodio è motivato dall’esito di quell’abbraccio che, condotto «fino in fondo, intimamente», generò Romolo e Remo.
Altrettanto fecondo è l’abbraccio scolpito sul capitello trecentesco detto «dell’amore», nel portico al piano terra di Palazzo Ducale a Venezia. Sbucando sopra e tra le foglie d’acanto, le scene mostrano due giovani corteggiarsi, incontrarsi, abbracciarsi e poi riabbracciarsi, la seconda volta nudi e sotto le coperte. Da quest’ultimo «amplexus» nasce il bambino che, nei due episodi successivi, gli orgogliosi genitori ostentano prima in fasce e poi grandicello. Con triste epilogo, la coppia lo piange infine sul lettino funebre, forse crudele castigo per averlo concepito nel peccato.
Che l’abbraccio sia figura (in quanto postura) dell’amplesso è confermato nel mosaico duecentesco che, entro la vicina chiesa di San Marco, trascrive e illustra il passo di Genesi (1, 28): «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra». Le cortine scostate consentono di osservare una coppia, probabilmente Adamo ed Eva, impegnata a tradurre in pratica l’ordine divino. Non si sono tuttavia spogliati e l’uomo cinge la donna posandole una mano sul seno. Pur accettandone le avances, lei rimane passiva poiché le si chiedeva (e imponeva) di concepire per dovere, non certo con piacere.
È nuovamente l’uomo a prendere l’iniziativa (e con quale sfrontatezza) nel fregio (XII-XIII secolo) sulla torre angolare di San Donnino, a Fidenza, nel tratto dedicato alla vicenda di Milone e Berta. Il cavaliere e la sorella di Carlo Magno si amavano segretamente e, quando lei si scoprì incinta, fuggirono insieme. Il loro abbraccio, che rappresenta pertanto il concepimento del futuro e prode Ronaldino, è palesemente asimmetrico e furtivo, evocativo e per nulla descrittivo. Sono vestiti e in piedi; Milone accosta il viso a Berta cingendole le spalle con il braccio sinistro, mentre le infila la mano dell’altro nella gonna. Berta solleva la destra nel gesto di accettazione e reca con la sinistra un fiore, forse riferimento al generarsi di una vita nuova.
Fu fecondo anche l’abbraccio di Zefiro a Clori: non generò però un bambino, ma i fiori di primavera, come narrato da Ovidio e raffigurato sul margine destro della «Primavera» (1482-85 ca) di Botticelli, agli Uffizi di Firenze. Personificato in uomo alato verde-azzurro con veste e capelli scompigliati e guance gonfie che soffiano, Zefiro aggredisce alle spalle la bellissima Clori, tendendo le braccia ad abbracciarla per trattenerla e possederla. Dalla bocca della ninfa già sgorgano i fiori sui quali, a riparare la violenza perpetrata, Zefiro le donò «piena signoria» (Ovidio) trasformandola in Flora. Per questo, comprimendo le fasi del racconto, Botticelli accostò alla ninfa aggredita la splendida dea della Primavera che, fecondata dal vento tiepido, sparge i fiori sulla terra.
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