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Redazione
Leggi i suoi articoliL’America torna a chiudersi. Con l’ordine esecutivo firmato da Donald Trump il 29 settembre, le importazioni di legno, mobili, cucine e manufatti decorativi sono soggette a dazi fino al 50% dal 2026. Una misura pensata per sostenere l’industria manifatturiera interna, ma che rischia di travolgere un intero ecosistema culturale: quello del mercato dell’antiquariato e delle arti decorative. «Sono sotto shock», ha dichiarato Millicent Ford Creech, antiquaria di Memphis specializzata in arredi del XVIII secolo. «Capisco l’intento di proteggere i produttori americani, ma i miei clienti cercano mobili del Settecento, non divani di Ikea». La distinzione, tutt’altro che ironica, segna il confine tra produzione industriale e patrimonio storico. Tuttavia, la nuova politica doganale non lo riconosce.
Le tariffe colpiscono tutto ciò che non rientra nella definizione di “informational materials” – cioè pittura, scultura e arti visive protette dal 1977 – lasciando invece scoperti i settori di confine: orologi, ceramiche, mobili, vini, automobili d’epoca.
«I dazi sono stati un disastro per chi acquista all’estero», spiega Steven J. Chait, presidente della storica Ralph M. Chait Galleries di New York. «Abbiamo pagato il 30% su un piccolo animale in porcellana cinese del XVII secolo. In pratica, dobbiamo assorbire il costo». Il rischio, secondo l’avvocato d’arte Nicholas O’Donnell, è che «le tariffe spingano vendite e collezionismo fuori dagli Stati Uniti, a vantaggio di gallerie e case d’asta europee». Già oggi, gli espositori europei che partecipano a fiere americane come The Winter Show si trovano penalizzati: i dazi si applicano persino a opere importate solo per l’esposizione.
Il protezionismo doganale non è nuovo nella storia americana. Già nel 1896 William McKinley vinse le elezioni su una piattaforma di “tariffe alte per il lavoro americano”. Ma ciò che allora favorì la nascita di un collezionismo nazionale – come quello di J.P. Morgan, costretto a spostare i suoi acquisti dall’Inghilterra a New York – oggi rischia di isolare culturalmente gli Stati Uniti. Il mercato americano dispone di un vasto patrimonio storico già presente nel Paese, ma la sua vitalità è sempre dipesa dal dialogo internazionale. «Io ho smesso di comprare all’estero», ammette l’antiquario Chris Jussel, volto noto di Antiques Roadshow. «Nessuno ci ha consultati: è stato un atto d’imperio». Il suo piccolo scrigno del Settecento inglese resta fermo in un magazzino londinese, in attesa che i dazi vengano revocati.
Il 5 novembre la Corte Suprema è chiamata a esprimersi sulla legittimità costituzionale delle tariffe, imposte unilateralmente in base all’International Emergency Economic Powers Act. «È difficile sostenere che uno squilibrio commerciale sia un’emergenza nazionale», osserva Peter Tompa, esperto di diritto dei beni culturali. «La circolazione di arte e antiquariato dovrebbe essere incoraggiata, non ostacolata: è un motore di conoscenza reciproca». Il contenzioso apre una questione più ampia: l’arte come merce o come bene culturale. Se le politiche protezionistiche possono avere senso per acciaio o automobili, la loro applicazione cieca all’arte e al collezionismo rischia di trasformare la dogana in un confine simbolico tra culture.
In attesa della decisione della Corte, molti operatori riducono le acquisizioni internazionali. Le fiere rallentano, le spedizioni si complicano, la confusione regna anche tra spedizionieri e assicuratori. «Quando chiedo quanto costerà portare un vaso da Londra a New York, nessuno lo sa più dire», confida l’antiquario Michael Pashby. Nell’era della globalizzazione, il protezionismo culturale sembra una contraddizione in termini. Ma, come accadde un secolo fa, potrebbe ridefinire i confini del collezionismo americano: da cosmopolita a nazionale, da aperto a introverso. E forse, come ammoniva già J.P. Morgan nel 1906, «un Paese che non importa cultura, finisce per non esportare idee».
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