Michela Moro
Leggi i suoi articoliStefano Rabolli Pansera nel 2023 ha lasciato l’incarico di direttore delle gallerie Hauser & Wirth per andare a Bangkok a dirigere l’organizzazione non profit Khao Yai Art. Quarantaquattrenne di origini bresciane, attraverso due progetti diversi e complementari, la Bangkok Kunsthalle e la Khao Yai Art Forest, intende presentare opere di artisti contemporanei e rivitalizzare il rapporto con la natura attraverso l’apprendimento, la cura e la partecipazione attiva. Impossibile trovare immagini in cui Stefano Rabolli Pansera non sia in giacca e cravatta, nemmeno nei luoghi più remoti e meno formali rinuncia alle bretelle e ai gemelli nei polsini della camicia, immutabile nell’aplomb anglosassone, mentre attraversa continenti e professioni. Laureato all’Architectural Association School of Architecture di Londra nel 2005, la nota «AA», Rabolli Pansera ha lavorato tre anni per lo studio Herzog & de Meuron a Basilea, poi ha insegnato presso la citata università come Unit Master fino al 2011. Nel 2009 fonda Beyond Entropy Ltd, un’agenzia curatoriale focalizzata sul rapporto fra arte, architettura e geopolitica, sviluppando progetti in Africa, Europa e nel Mediterraneo.
Riconosce in lei qualcosa di eretico e di profetico?
L’idea di eretici e profeti è molto pertinente: eretico, perché sono un architetto fuoristrada, e in questo senso eretico; il profeta segue la definizione del profeta di Machiavelli che è stato disarmato, ma non inerme. Per gli architetti della mia generazione c’è un problema di corrispondenza fra la missione per la quale abbiamo una vocazione e il contesto in cui siamo chiamati a confrontarci, che non dà spazio a visioni ambiziose. Per questo nella mia vita mi sono sempre spostato in aree geografiche apparentemente marginali, prima in Angola e poi in Mozambico, Paesi lusofoni e africani. Ai tempi l’Angola era il più grande esportatore di petrolio dall’Africa alla Cina, e il Governo cinese costruiva smisurate città satellite intorno a Luanda, la capitale. Era una sorta di transazione urbana molto interessante: l’Angola vendeva petrolio e la Cina vendeva città. Erano città inabitate e abbandonate precocemente perché il Governo non costruiva le infrastrutture necessarie per raggiungere le città satellite: mi interessava esplorare questa dinamica.
Da qui la sua curatela del Padiglione dell’Angola alla 13ma Mostra Internazionale di Architettura di Venezia nel 2013, premiato con il Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale. Nel 2015 torna alla Biennale come curatore del Padiglione Islanda con la controversa opera di Christoph Büchel, noto per i suoi lavori provocatori, dal forte profilo politico-sociale.
Poi ero esausto, più della fame poté il digiuno. Il problema di Beyond Entropy era che andava oltre l’entropia verso la bancarotta, perché lavoravo tanto e non entravano mai soldi.
L’assist arriva da Büchel che la presenta a Iwan Wirth. Tra il 2017 e il 2023 lei lavora per Hauser & Wirth un paio d’anni a Londra, e poi a Sankt Moritz, dove apre e dirige la galleria e dove, nel 2021, ha fondato il St. Moritz Art Film Festival, di cui continua a ricoprire il ruolo di direttore artistico.
Le mie operazioni più importanti per Hauser & Wirth furono tre. La prima era stata con Christoph Büchel, la seconda di occuparmi di Fabio Mauri e del suo estate; la terza di portare l’intera Collezione Panza da Hauser & Wirth, con la proposta di fare una grande mostra a Los Angeles, che non si tenne mai a causa del Covid; quindi realizzammo la mostra a Londra e a Sankt Moritz. Qui incontrai la signora Marisa Chearavanont, filantropa, collezionista d’arte e mecenate thailandese, che comprò circa 200 opere della Collezione Panza e le portò in Thailandia, ma che voleva anche aprire un museo e mi chiese di diventarne il direttore.
Com’è andata in Thailandia?
Quando sono arrivato a Bangkok del museo non esisteva neanche il nome. Esistevamo solo io e la signora Marisa, che voleva aprire il museo in mezzo alla foresta. Sapendo che era impossibile e che avremmo dovuto iniziare da una base urbana, le proposi di comprare un edificio. Lei suggerì questo splendido compound di 6mila metri quadrati che oggi occupiamo nel centro della città; l’idea di unire la programmazione curatoriale con il progetto architettonico deriva dall’interesse di Marisa Chearavanont per il concetto di healing, del «prendersi cura»: non trasformiamo l’edificio, non lo ristrutturiamo, ma ce ne prendiamo cura inserendo installazioni e opere d’arte che lo «addomesticano». Mi piace la possibilità di traslare il concetto da ristrutturare ad addomesticare.
Come ha addomesticato la Kunsthalle?
In una splendida performance, «I love America and America loves me», Joseph Beuys si chiude in una galleria con un coyote per tre giorni e tre notti. La performance è il reciproco addomesticarsi dell’uomo e dell’animale. È la dinamica che mi interessava esplorare con la Bangkok Kunsthalle: chiamiamo artisti che entrano nello spazio in modo molto brutale, ma per addomesticarlo. Come facciamo? Nella prima mostra «Nine Plus Five Works» Michel Auder, regista di film sperimentali e videoarte dagli anni ’60, ha distribuito gli schermi nello spazio come agopuntura. Questo mi ha permesso di aggiungere l’aria condizionata, l’elettricità, il minimo per trasformare lo spazio. La seconda installazione, «nostalgia for unity» di Korakrit Arunanondchai, è un bellissimo pavimento fatto con le ceneri trovate nell’edificio, che bruciò 23 anni fa. Così l’edificio che rinasce dalle proprie ceneri diventa una metafora della Fenice. Con quest’opera abbiamo «addomesticato» il piano superiore. Concepito nel 1966, «Mend Piece» di Yoko Ono, terza mostra realizzata, invita i visitatori a ricomporre frammenti di ceramica frantumati su un lungo tavolo. Questo è quello che facciamo con l’edificio stesso, i temi della riparazione e della collettività costituiscono il nocciolo del programma della Bangkok Kunsthalle: riparare un edificio abbandonato, rafforzare la comunità locale, unire individui disparati.
Si sente più curatore o architetto?
Entrambi, perché il progetto curatoriale è progetto architettonico, e invitando gli artisti a sviluppare un progetto piano per piano io ristrutturo l’intero edificio. Questa è un’idea eretica, di antiarchitettura, perché non impongo una visione architettonica, ma lascio che il progetto cresca quasi come un atto di fede, perché spero che ogni artista costruisca qualcosa che possa essere la base per l’artista successivo.
La Thailandia le pare il luogo adatto per un progetto simile?
Bangkok è una città molto più arretrata di metropoli come ad esempio Seul e Tokyo, ma l’energia che si respira è irresistibile. In più l’essenza della cultura thailandese è molto inclusiva e trasforma tutto ciò che incontra in qualcosa di originale.
Come si collega il progetto della Kunsthalle con la foresta di Khao Yai?
Sono due facce della stessa medaglia, lì ci sono 65 ettari dedicati al tema dell’agricoltura e del farming, del prendersi cura. La mia più grande ambizione è che le persone entrino nella foresta e non si rendano conto di essere circondate da opere d’arte, pur essendolo.
Come sceglie gli artisti avendo il mondo a disposizione?
L’artista stabilisce il calibro in ambizione e anche la complessità di quello che vogliamo fare. Nella foresta c’è Fujiko Nakaya, una delle più grandi videoartiste del Giappone del XX secolo. Lavora con la nebbia, con cui ha fatto la più grande installazione permanente mai realizzata, una sorta di Land art 2.0. Francesco Arena è qui con il suo più grande progetto, due rocce con una scritta all’interno che pesano 40 tonnellate. La «Maman» di Louise Bourgeois, che abbiamo in prestito, è fatta di 11 metri di scultura sotto i quali sono state fatte crescere le risaie. Per evitare lo stereotipo dello Sculpture park, quando la scultura verrà restituita le donne del posto ricostruiranno il ragno in scala 1:1 realizzandolo con il classico bambù locale intrecciato.
Come vi rapportate al mercato?
Questo è un aspetto di vivace confronto con Marisa Chearavanont. Lei è convinta che la scena artistica possa sbocciare con il mercato o grazie al mercato; io credo invece che possa svilupparsi se costruiamo un ecosistema di curatori, istituzioni, collezionisti. Anche di mercato, ma prima è importante nutrire un gruppo di giovani galleristi che aiutino gli artisti, costruire un gruppo di giornalisti e di curatori. Alla Kunsthalle teniamo una serie di dibattiti e di conversazioni su questo. Il mercato arriva, ma se è troppo presto brucia le opportunità e dev’essere fatto secondo regole fondamentali. È importante che i collezionisti comprino le opere attraverso le gallerie. È importante che le gallerie non speculino sugli artisti ma contribuiscano a costruire l’ecosistema. Nel contesto in cui mi trovo, sono convinto che sia fondamentale offrire una sorta di resistenza al mercato.
Come si fa a rimanere liberi lavorando per istituzioni così importanti e come riesce a muoversi sempre a un livello altissimo?
C’è un dittico di Alighiero Boetti il cui titolo è «Avere fame di vento Avere sete di fuoco»: è una missione, sempre.
Altri articoli dell'autore
L’allegro personaggio «Fat Boy», che decorava l’interno di ciotole, piatti e contenitori Mimbres, diventa protagonista dei 60 acquerelli realizzati dal versatile artista austrico e in mostra da Antonia Jannone
Il nuovo Micas, Malta International Contemporary Arts Space, occupa un'antica fortificazione restaurata dal fiorentino Ipo Studio. L’inaugurazione ha avuto luogo con le opere di Joana Vasconcelos
Cinquantasei lotti con stime da 80mila a 1,4 milioni di euro di artisti quali Stephan Balkenol, Max Beckmann, Peter Halley, Tony Cragg, Katharina Grosse, Anselm Kiefer, Pablo Picasso, Gerhard Richter, Edward Ruscha. Appuntamento a Monaco il 6 dicembre
Scoperto quasi per caso esaminando delle fotografie, ricevuto in eredità e poi usato come portabastoni, è in porcellana della famiglia rosa con decorazione a smalti doucai e marchio Qianlong. E ha anche un gemello al Museo del Palazzo di Pechino. Sarà battuto il 21 novembre