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Bruno Racine ritratto nel Padiglione della Santa Sede, «Con i miei occhi», alla 60ma Esposizione Internazionale d’Arte-La Biennale di Venezia, 2024

Foto: Marco Cremascoli

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Bruno Racine ritratto nel Padiglione della Santa Sede, «Con i miei occhi», alla 60ma Esposizione Internazionale d’Arte-La Biennale di Venezia, 2024

Foto: Marco Cremascoli

Racine, un manager nella mente degli artisti

«Se si lavora con artisti viventi è necessario costruire un rapporto empatico, non solo valutare il progetto ma interpretarne i desideri, le ossessioni, i timori. Sono individui alla ricerca di sé e questo ha come prezzo l’incertezza», dice l’amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana

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Alessandra Mammì

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«Non sono un curatore di professione, il mio lavoro è dirigere istituzioni culturali», precisa Bruno Racine (Parigi, 1951), amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana. Ma è proprio questo il tema di questa intervista: quel sottile confine che divide il lavoro di chi è al governo di un’istituzione e chi invece fa nascere un’esposizione anche per cercare di definire che cosa sia quello sfuggente mestiere che si racchiude nella parola curatore. Racine questo confine l’ha attraversato più volte. Fin dai tempi in cui, a capo degli Affari culturali di Parigi negli anni Novanta, sosteneva una rivoluzionaria direttrice come Suzanne Pagé nella sua volontà di far evolvere il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris in luogo fatto dagli artisti per gli artisti. E di nuovo sconfinò a Roma come direttore dell’Accademia di Francia (1997-2002), dove aprì Villa Medici a curatori contemporanei tra i più sperimentali lasciando che «La Ville, Le Jardin, La Mémoire» (chiamò così il progetto) fossero invasi per tre anni da opere, installazioni, performance ed eventi. Questo progettare per gli artisti, con gli artisti e con i curatori non è cambiato nei tanti e diversi ruoli ricoperti nella sua carriera. Ma sempre dissimulato nel ruolo istituzionale di chi dirige e governa. 

Perché è un peccato di modestia da parte di Bruno Racine dire «sono solo un uomo di istituzioni». Sia perché alla carriera pubblica Racine accompagna il ruolo di scrittore di romanzi e di saggista. Sia perché il curatore di professione è una figura davvero recente. Lo dice un esperto del mestiere, Hans Ulrich Obrist, che nel suo libro Fare una mostra (Utet, 2014) racconta come dai «curatores» della Roma antica, che erano funzionari chiamati a occuparsi di opere pubbliche come acquedotti e fognature dell’impero, alla fine del ’700 il termine passa a designare chi supervisiona le collezioni d’arte di un museo con lo stesso spirito di servizio. Probabilmente lo stesso spirito con cui Bruno Racine ha cominciato a firmare in prima persona complesse esposizioni, come la corale e coinvolgente «Icônes» dello scorso anno (cocurata con Emma Lavigne, direttrice della Pinault Collection), che occupava l’intera Punta della Dogana. Ma soprattutto l’idea e la cura (quest’ultima condivisa con Chiara Parisi) del Padiglione della Santa Sede per la 60ma Biennale allestito nella Casa di reclusione femminile della Giudecca. Mostra che non è un semplice appuntamento da Biennale, ma si pone come esperienza che va ben oltre l’arte.

Bruno Racine, lei è un responsabile amministratore di istituzioni culturali, ma a Roma ha riformato il ruolo dell’Accademia di Francia; come presidente della Bibliothèque Nationale a Parigi ha permesso agli artisti di entrare nel tempio e ora è in prima linea nel firmare uno dei progetti più complessi a Venezia: il Padiglione della Santa Sede che apre le porte di un carcere. Direttore, amministratore, curatore sono per lei ruoli diversi?
Sono ruoli diversi anche se il fine è lo stesso: accompagnare il progetto o un artista, contenerlo e insieme farlo crescere, ma soprattutto riuscire alla fine a realizzarlo. Un curatore è più libero mentre un’istituzione ha i suoi limiti, anche se il suo ruolo non si risolve nella fedeltà alle regole o all’obbedienza a un budget previsto. Trovare i soldi che mancano a raggiungere uno scopo fa parte dei compiti. E infine nel dirigere c’è anche una competenza che non è solo amministrativa, ma umana e culturale. Significa conoscere come funziona la mente di un artista.

Quando dice «conoscere la mente di un artista», che cosa intende esattamente?
Se si lavora con artisti viventi è necessario costruire un rapporto empatico, non solo valutare il progetto ma andare oltre: interpretarne i desideri, le ossessioni, i timori. Ci si trova di fronte a persone che non ti stanno offrendo un prodotto, ma un processo creativo. Sono individui alla ricerca di sé ed è una ricerca che ha come prezzo l’incertezza. Forse mi è naturale entrare in questo processo perché come scrittore conosco quelle ansie, la paura del confronto con l’esterno, il dubbio di non sapere se quel che hai fatto funziona o se è meglio buttare via tutto...

È stato così anche con Pierre Huyghe, la cui imponente antologica, curata da Anne Stenne, è in corso a Punta della Dogana?
Soprattutto. Questa mostra nasce come la sua opera più ambiziosa. Aveva intenzione di creare un universo attraverso opere nuove e altre storiche. Era anche il suo ritorno dopo anni in uno spazio chiuso e tornare dentro le mura si poneva al tempo stesso come limite e come una forzatura stimolante. Il tema di partenza della mostra era ricostruire l’esplorazione di un’isola abbandonata, ma man mano che il progetto cresceva la connessione con l’isola si è perduta ed è nato qualcosa di molto più grande: una visione sul futuro del pianeta, dove forse non sopravvivrà l’umanità ma di sicuro sopravvivrà la bellezza.

L’artista Christian Boltanski affermava che l’ambizione di ogni mostra è inventare un nuovo modulo espositivo. È d’accordo?
Credo che l’ambizione sia quella di offrire un’esperienza e di cambiare le abitudini visive nel percorso o nell’uso di un luogo. La proposta di Miquel Barceló di ricoprire di vortici di argilla il lungo corridoio vetrato della Bibliothèque Nationale e trasformare un edificio modernista in una caverna, sembrava una follia solo a pensarlo. Ma se ho accettato di condividere questa follia, l’ho fatto perché il ruolo di un’istituzione è anche quello di osare.

L’istituzione deve assecondare gli artisti anche nei progetti più spericolati?
Non sempre. Il gioco delle parti è appassionante. A volte gli artisti hanno bisogno del conflitto. Per alcuni di loro se l’istituzione non si oppone al progetto nasce il dubbio che il progetto sia banale. Un caso estremo mi capitò con Jean-Luc Godard durante la preparazione della sua mostra per il Centre Pompidou. La proposta prevedeva la costruzione di un set da film western, cosa complicata da realizzare ma forse anche troppo ludica e persino puerile. Se ne rese conto lui per primo, ma invece di ammetterlo mi chiese di spostare l’inaugurazione ben sapendo che è cosa quasi impossibile nel calendario del Pompidou. Sperava in un rifiuto per far saltare tutto. Invece sia pure a fatica, trovai una nuova data. Fu lui allora a ripensarci. Disse che preferiva mantenere il programma e cambiare il progetto. Ne è nata una cosa geniale che è ancora studiata ovunque come origine di una nuova progettualità espositiva («Voyage(s) en utopie», 11 maggio-14 agosto 2006, Ndr).

L’istituzione ha un ruolo educativo?
Preferisco dire dialettico. Può essere di stimolo se l’artista sente una resistenza, ma bisogna sempre offrire una soluzione. Dire «no» è troppo facile. Il ruolo è quello di riuscire a creare insieme anche se questo può essere faticoso.

Appena arrivato a Palazzo Grassi lei disse che tra i suoi compiti vedeva quello di rafforzare il rapporto con la città e con chi la abita. Ha mantenuto la promessa al punto da aprire le porte di un carcere. 
Questo è un progetto che non riguarda Palazzo Grassi ma esclusivamente la Santa Sede e il desiderio da parte del Vaticano di tornare a partecipare alla Biennale d’Arte. Quando il cardinale José Tolentino de Mendonça (prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, Ndr) mi ha coinvolto, ho pensato che la cosa più importante non fosse trovare un luogo fisico ma un luogo di persone. Abbiamo immaginato varie ipotesi, ma ho indicato questa perché ero convinto che il Padiglione del Vaticano dovesse contenere un messaggio già nella scelta della sede a prescindere dal contenuto artistico. Un carcere, e per lo più femminile, era giusto per dare concretezza a quel messaggio del Papa che ci parla di esclusi. Ma eravamo consapevoli che non si stava agendo in una galleria e che il rapporto con le detenute doveva far parte del progetto. Era necessario coinvolgerle, per questo il ruolo di Chiara Parisi è stato determinante. Non solo in quanto curatrice, ma in quanto donna e italiana in grado di interagire con loro, costruire un rapporto di fiducia, cosa molto più difficile per me in quanto uomo e francese. Il punto di partenza era costruire qualcosa che avesse un senso non solo per il pubblico della Biennale e del suo vernissage. E pur sapendo che l’arte forse non può cambiare la vita, qui poteva però cambiare la vita di alcune persone per qualche mese, avere un impatto sociale reale.

Ha cambiato anche l’esperienza del visitatore da Biennale: entrare in un carcere, mostrare i documenti, lasciare i telefoni, sentire le porte che si chiudono dietro di te e guardare l’arte attraverso le parole delle detenute. 
Il titolo «Con i miei occhi», scelto dal cardinale Mendonça che è anche poeta, è un invito a recuperare uno sguardo non più protetto dalle abitudini e dai ruoli. L’idea è trasformare il visitatore in uno straniero, creare un legame fra mondi che non comunicano, leggere testi, alcuni molto belli, scritti da queste donne che non sono critici ma hanno qualcosa da dire di emozionante e profondo. La parte più interessante del nostro lavoro di curatori è stata trovare un linguaggio comune con le detenute e lasciare che fossero loro a guidare nella visita.

Dunque è più interessante il processo che il prodotto artistico?
Sono inseparabili. È attraverso il processo che il prodotto artistico acquista una nuova tensione. Alcune opere sono state prodotte per il padiglione altre invece già esistevano, ma in questo contesto hanno acquisito una dimensione umana e una tensione molto forte. L’opera di Claire Fontaine «Siamo con voi nella notte», che prende spunto da una scritta murale degli anni Settanta, non è nuova, ma quando si illumina nel cortile centrale del carcere si veste di significati diversi. Le lastre di lava di Simone Fattal, dove sono incisi pensieri e poesie delle detenute che accompagnano il lungo corridoio d’ingresso, diventano una specie di sussurro in cui prende vita la loro voce. La qualità delle opere è essenziale alla riuscita dell’esperienza.

Nella sua doppia veste di uomo delle istituzioni e curatore, che cosa le fa capire se un progetto d’arte è davvero riuscito?
François Pinault a proposito di «Icônes» mi disse: «Questa mostra funziona perché ti fa uscire migliore di quando sei entrato». Mi sembra un ottimo criterio di giudizio.

Alessandra Mammì, 19 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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