«Butterfly» (1990), di Rebecca Horn

© Archivio Rebecca Horn, cortesia della Haus der Kunst, Monaco di Baviera

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«Butterfly» (1990), di Rebecca Horn

© Archivio Rebecca Horn, cortesia della Haus der Kunst, Monaco di Baviera

Rebecca Horn: come ci decentriamo noi esseri umani

Nell’Haus der Kunst sei decenni di attività dell’artista tedesca

A cura di Jana Baumann e Radia Soukni, l’Haus der Kunst presenta una mostra antologica di Rebecca Horn (Heidemarie Rebecca Horn, nata a Michelstadt, in Assia, nel 1944), performance artist, coreografa e regista tedesca, etichettata come «inventrice, autrice e compositrice o poeta», il cui lavoro si muove tra diverse discipline artistiche e comprende per l’appunto performance, installazioni di varia natura (soprattutto installazioni spaziali scultoree), oggetti cinetici, testi poetici, film, musiche e disegni. 

La mostra, aperta dal 24 aprile al 13 ottobre, copre sei decenni di attività, dagli inizi negli anni ’60 e ’70, quando l’artista intraprendeva le combinazioni di ambienti scultorei, installazioni e disegni con video, performance e sovrapitture fotografiche per creare dei singoli corpus di opere di diversa natura (partecipando giovanissima a documenta 5 nel 1972), ad oggi, affrontando il tema dell’esistenza e dell’offuscamento dei confini tra natura e cultura, tecnologia e capitale biologico, umano e non umano, suo prediletto. La rassegna è una lettura del suo lungo lavoro performativo: l’artista utilizza sempre l’idea di incorporazione, dai primissimi lavori su carta negli anni ’60 alle prime performance, fra Fluxus e Happening Art, nei ’70, dalle sculture meccaniche degli anni ’80 alle ampie installazioni nei ’90 sempre procedendo sulla stessa falsariga, purché matericamente e artisticamente modificabile, un’esplorazione del progressivo decentramento dell’essere umano

Rebecca Horn descrive la sua pratica come un ensemble organico di relazioni precisamente calcolate tra spazio, luce, fisicità, suono e ritmo. La sua è un’opera colta, con continui rimandi virtuosamente intrecciati alla letteratura, alla poesia, alla storia del cinema e all’arte del fare cinema: lei stessa ha affermato a più riprese di ispirarsi a Franz Kafka e Jean Genet, a Luis Buñuel e a Pier Paolo Pasolini. Tra i suoi lavori più noti, in larga parte esposti in questa mostra, si ricordano, degli anni d’oro della sua produzione, i ’70: «Einhorn» (Unicorno, 1970), Super-8-mm performance con una delle sue prime body extension; la scultura-performance «Finger Gloves» (1972 e 1974), in cui l’artista performer indossa due protesi nere di guanti dalle lunghe dita sottili e rigide in legno e tessuto, oggetto di diverse opere distanziate nel tempo; «Feather Fingers» (1972), altra opera incentrata sull’illusione del tatto e sulle mani; «Cockfeather» (1971), «Cockfeather Mask» (1973), «Cockatoo Mask» (1973), «Paradise Widow» (1975) e «The Feathered Prison Fan» (1977). 

Francesca Petretto, 22 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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