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Giovanni Pinna
Leggi i suoi articoliCon un coup de théâtre, il 28 novembre dello scorso anno, in un’aula magna dell’Università di Ouagadougou (Burkina Faso, ex colonia francese dell’Alto Volta) gremita di studenti e personalità, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato che una delle sue priorità sarà quella di definire entro cinque anni le condizioni «pour un retour du patrimoine african à l’Afrique» e ha incaricato due «personnalités incontestables», Bénédicte Savoy del Collège de France (cfr. n. 384, mar. ’18, p. 18, Ndr) e lo scrittore senegalese Felwine Sarr, di studiare i procedimenti per la restituzione ai Paesi africani delle opere d’arte attualmente in Francia.
L’imprevista iniziativa del presidente Macron ha avuto l’effetto di un macigno in uno stagno, le cui onde hanno dato una scossa ai musei etnografici, non solo francesi, al mondo degli esperti che da anni discutono sul problema delle restituzioni di opere e oggetti d’arte e in generale agli studiosi di Arts premiers. A dire della Savoy, Stéphane Martin, direttore del Musée du quai Branly, il più importante «repositoire» francese di etnologia africana destinato a sparire nel caso che il programma andasse a buon fine, si sarebbe allineato alla proposta presidenziale, affermando che non si «può concepire un continente privato fino a tal punto delle testimonianze del suo passato e del suo genio plastico», buttando così alle ortiche le premesse che hanno portato alla fondazione del suo stesso museo.
La Savoy, che ha definito quella del presidente «una storica iniziativa», sostiene che in Germania le organizzazioni degli immigrati africani hanno chiesto al Governo di rivedere il programma dell’Humboldt Forum (che aprirà nel 2019, Ndr) destinato a contenere, fra le altre cose, le collezioni etnografiche nazionali, e ricorda che il Ministero degli esteri tedesco ha lanciato l’iniziativa per una conferenza internazionale sul modello di quella di Washington del 1998 sulle restituzioni dei beni ebraici trafugati durante la dittatura nazista.
L’iniziativa francese è stata accolta con favore dall’Unesco, che da sempre è a fianco dei Paesi usciti dal colonialismo che tentano di ricostruire un proprio patrimonio culturale, e, tramite Mechtild Rössler, capo del Centro del Patrimonio Mondiale, ha sollecitato «ogni museo a dare un’occhiata alle proprie collezioni per identificare i pezzi che sono stati raccolti illegalmente o in dubbie circostanze durante il colonialismo». Per contro molti musei europei e nordamericani hanno espresso la loro perplessità, e soprattutto il loro timore che l’iniziativa francese possa sollevare un ciclone di richieste di restituzione di collezioni etnografiche da parte degli Stati africani che, evocando giustamente i danni del colonialismo, hanno però dimenticato i decenni di identificazione, studi, classificazioni, restauri e conservazione che fanno sì che oggi le richieste dei Paesi africani si rivolgano verso materiali etnografici che, a parte casi ben noti e documentati, difficilmente avrebbero potuto conservarsi al di fuori delle mura dei musei occidentali.
Proprio il colonialismo rende oggi difficili le restituzioni, come ha dichiarato a «The New York Times» Simon Njami, direttore della rivista d’arte africana «Revue Noire», che ha definito l’impegno di Macron «una promessa folle». Egli ricorda che nella conferenza di Berlino del 1884-85 furono stabiliti i confini delle colonie, ignorando le linee di demarcazione definite dagli antichi regni africani o dalla distribuzione delle etnie; in questa situazione «come potremmo stabilire che cosa appartiene a chi?».
Andrew Reid, professore di Archeologia africana allo University College di Londra, ha considerato l’iniziativa di Macron come una forma di «soft diplomacy», un tentativo di ingraziarsi con una politica di buone intenzioni le regioni in cui sta aumentando l’influenza della Cina Popolare. L’avvocato di Bruxelles Yves-Bernard Debie, specialista nella proprietà culturale, ha definito «storico» il discorso di Macron poiché rompe con la tradizione giuridica francese risalente all’editto di Moulins del 1566, che stabilì l’inalienabilità del patrimonio della corona, divenuto in seguito patrimonio pubblico. Ha messo in evidenza il fatto che il principio di inalienabilità è inscritto nella legge in vigore e che quindi la legge andrebbe cambiata se si volesse restituire all’Africa ciò che si pensa le appartenga.
Per superare l’impasse giuridica Macron ha indicato una strada soft quando ha parlato di «restituzioni temporanee», una via però difficilmente percorribile poiché implica che si riconosca al bene oggetto della «restituzione temporanea» una doppia proprietà, quella di chi riceve il bene temporaneamente in forza di una proprietà riconosciuta e quella di chi presta il bene a un legittimo proprietario ma ne conserva nello stesso tempo la proprietà. Tuttavia Macron ha indicato anche una via più radicale: restituire in perpetuo il patrimonio africano cambiando la legge che stabilisce l’inalienabilità del patrimonio pubblico, una via che richiede un passaggio parlamentare il cui esito potrebbe anche essere incerto per le implicazioni connesse con il concetto di patrimonio nazionale e con la memoria storica del popolo francese.Le collezioni francesi di arte africana, indipendentemente da come sono state riunite (con la frode, con la forza, con la persuasione o con il denaro), sono comunque la rappresentazione simbolica di un tratto della storia della Nazione che non è facile cancellare con un colpo di spugna.
Tornato in patria Macron ha proseguito nel suo progetto. Ha incaricato formalmente le due «personnalités incontestables» di mettere intorno a un tavolo attivisti, intellettuali, responsabili politici, professionisti di musei, africani d’Africa e africani della diaspora, mecenati, insegnanti, artisti, persone che auspicano la restituzione e persone contrarie, scrive la Savoy, per discutere di un progetto che di fatto è già deciso nella sua forma essenziale, sunteggiato nella frase apparsa sul Twitter dell’Eliseo: «Il patrimonio africano non può essere prigioniero dei musei europei». Frase sorprendente: ci porta infatti al 1794 quando la Convenzione incaricò le armate repubblicane di confiscare i beni del nemico secondo la dottrina del «patrimonio liberato», che giustificava i sequestri dei beni europei sostenendo che dalla prigionia nei Paesi illiberali venivano liberati, portati nella Francia libera, nuova patria degna di accoglierli.
Non so se la promessa di Macron avrà un seguito pari alle speranze che ha generato nei Paesi africani francofoni. Vi sono infatti molti elementi da considerare quando si tratta di restituire oggetti inerenti al complesso che va sotto il nome di patrimonio culturale: dalla sensibilità storica del popolo francese alle strutture atte ad accogliere le opere, alla stabilità politica dei Paesi destinatari, all’identificazione dei destinatari. Il problema delle restituzioni non è di facile soluzione se si vogliono restituire i beni ai supposti legittimi proprietari rispettando norme di moralità e equità.
Gli oggetti prelevati in Africa nel periodo coloniale o prima non possono essere invariabilmente restituiti agli Stati-Nazione di oggi, poiché non è detto che essi rappresentino le popolazioni cui gli oggetti furono sottratti. In questo senso (salvo casi ben documentati) la maggior parte degli Stati-Nazione africani non possono accampare un generale diritto sui beni africani custoditi nei musei occidentali. Questi andrebbero dunque restituiti a popoli/etnie che non necessariamente coincidono con gli Stati-Nazione, e che vanno di volta in volta identificati, ammesso che esistano ancora dei loro rappresentanti. La restituzione delle collezioni africane a Stati-Nazione non rappresentativi sarebbero utili solo per permettere loro l’invenzione di identità fittizie, come sono fittizie le identità della maggior parte delle Nazioni che hanno conservato i confini stabiliti dal colonialismo.
La promessa di Macron sembrerebbe partire dal principio che il prelievo dei beni africani sia stato sempre illegale, anche quando questo fosse stato effettuato a discapito di singoli individui, di popoli o etnie all’epoca non organizzate in Stati-Nazione, o anche in assenza di norme di tutela e di salvaguardia all’esportazione dei beni culturali. È evidente che l’applicazione di questa idea aprirebbe una voragine capace di ingoiare i musei etnografici (e non solo) occidentali, e tutta la storia scientifica che essi rappresentano.
Al di là di tutto ciò, mi chiedo comunque perché Macron abbia promesso la restituzione delle collezioni francesi all’Africa, e abbia dimenticato le ex colonie francesi d’Asia, i mandati mediorientali e l’Egitto faraonico. Forse aspetta altri viaggi diplomatici per assicurare anche a questi Paesi che presto torneranno in possesso di quanto la Francia ha loro sottratto? Come presidente della Commissione congiunta sulle restituzioni dell’Associazione Nazionale Musei Scientifici e del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze colgo questa irripetibile occasione per reclamare le opere italiane conservate nei musei francesi, invocando lo stesso principio di illegalità universale dei prelievi anche in assenza di Stati-Nazione giuridicamente riconosciuti e di leggi di tutela.
Se per l’Eliseo il patrimonio africano non può essere prigioniero dei musei europei, perché dunque dovrebbe rimanere prigioniero in Francia il patrimonio di provenienza italiana? Il presidente dovrebbe restituire a Venezia le «Nozze di Cana» del Veronese (rimaste a Parigi in cambio di «Il convito in casa di Simone» di Charles Le Brun, «buono al massimo per fare da cassa da imballaggio» secondo Ruskin), a Firenze i trecenteschi italiani prelevati da Bonaparte e rimasti al Louvre, a Verona la collezione di pesci fossili di Monte Bolca sequestrata da Gaspard Monge a nome del Bonaparte oggi al Muséum National d’Histoire Naturelle, a Napoli gli argenti romani di Boscoreale esportati clandestinamente, venduti al barone de Rothschild e oggi al Louvre, all’Italia le ceramiche etrusche, apule e della Magna Grecia di cui non si può dimostrare un’acquisizione legale. In occasione di una sua prossima visita ufficiale in Italia Macron dovrebbe restituire anche i bei frammenti dell’Ara Pacis della collezione Campana conservati al Louvre, permettendo la ricomposizione del monumento.

La vetrina del Louvre in cui è esposto il tesoro di Boscoreale, un servizio da tavola di circa 100 pezzi in argento, più qualche gioiello in oro, rinvenuto nel 1895 in una villa romana (detta della Pisanella) distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Un anno dopo il ritrovamento, gli antiquari Canessa di Napoli esportarono clandestinamente in Francia il tesoro e ne vendettero la parte più consistente al banchiere Edmond James de Rothschild, che in seguito la donò al Louvre