Brando
Leggi i suoi articoliQualche anno fa ad Art Basel Miami ho avuto il piacere di conoscere David Nahmad, uno dei più importanti mercanti d’arte del mondo che nel tempo è diventato un amico. Nel corso di quel formidabile incontro parlammo di molte cose: della sua immensa esperienza da collezionista, ma anche di avanguardie artistiche. A un certo punto, riferendosi al periodo che va dalla seconda metà degli anni Sessanta all’inizio dei Settanta, sentendomi menzionare Torino, David pronunciò in perfetto italiano il numero 127. Si riferiva ai chilometri che separano Milano da Torino: «Non li dimenticherò mai», disse, lui che quel tragitto lo aveva percorso molte volte in automobile, avanti e indietro dall’aeroporto di Milano. A quell’epoca, infatti, Torino fu culla e fulcro dell’Arte Povera, quella che diventerà la più importante avanguardia della seconda metà del Novecento e secondo me resterà l’unico grande movimento italiano di rilievo internazionale.
Ora sto per presentare la mia terza collezione dedicata proprio all’Arte Povera e ripenso a quella chiacchierata con Nahmad e a quanto orgoglio avessi provato nel sentire che, negli anni Sessanta e Settanta, la città in cui sono nato e ho passato la mia adolescenza rappresentava una tappa obbligatoria nel circuito internazionale dell’arte. Ero un bambino e come tutti i bambini mi interessavo ad altro, ma crescere circondato da quell’energia, da quella vitalità, credo mi abbia trasmesso questa passione per il collezionismo, che è maturata dopo essermi trasferito all’estero, aver studiato, visitato grandi musei e stretto le prime importanti relazioni. Nella mia nuova collezione ho voluto gli artisti più rappresentativi del movimento: Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini, Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Mario Merz, Alighiero Boetti, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Marisa Merz, Luciano Fabro, Mario Ceroli, Gianni Piacentino, Emilio Prini e Piero Gilardi. Sedici maestri per 32 opere che servendosi di materiali come la terra, la pietra, il legno, il vetro e il ferro hanno restituito una dimensione essenziale all’arte in dialogo profondo con la natura e l’ambiente circostante.
Potrei scrivere un libro raccontando gli aneddoti e le coincidenze che hanno accompagnato l’ingresso di ciascuna delle opere nella collezione. A partire dalle «bilancine» di Kounellis, forse la più impattante del catalogo, un capolavoro di 6 metri per 3 composta da 63 bilancine in ferro e altrettanti vetri di Murano. L’avevo vista per la prima volta nel 2006 alla Fondazione Arnaldo Pomodoro, innamorandomene all’istante, per ritrovarla qualche anno più tardi negli spazi espositivi della gallerista amica, Annamaria Maggi. Coincidenza? Chi non crede nelle coincidenze, le perde. Non l’ho persa. Potrei continuare con le opere di Pistoletto e Ceroli, oggetto di trattative estenuanti, e quella di Gilardi, la cui battuta d’asta, ahimè, ha stabilito il nuovo record mondiale dell’artista, ma non posso rivelare tutti i miei segreti.
Una cosa ancora la posso dire: creare una collezione d’arte è un esercizio complicatissimo, soprattutto se si vuole competere con le migliori collezioni europee e americane. Il risultato non è mai garantito. Non si tratta soltanto di avere tempo, risorse e competenze, di sviluppare una sensibilità dedicata per costruire una coerenza narrativa: si tratta, soprattutto, nel mio caso, di provare anche un particolare senso di responsabilità nel custodire e trasmettere il messaggio di un movimento che si è sviluppato in un angolo del mondo che per me rappresenta molto.
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