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«Untitled» (1982) di Cindy Sherman, stampa cromogenica, 121,9x61 cm. A destra, il volume «Cindy Sherman: 1975-1993»

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«Untitled» (1982) di Cindy Sherman, stampa cromogenica, 121,9x61 cm. A destra, il volume «Cindy Sherman: 1975-1993»

Cindy Sherman attraverso gli occhi di un suo collezionista

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Nel novembre del 2021, da Christie’s a New York, ho assistito alla vendita record di una fotografia. Ok, forse presentarla come una fotografia è riduttivo, così come definirla opera è troppo generico: credo che performance renda meglio il concetto, che comunque necessita di un approfondimento per chi abbia voglia di andare oltre a questo racconto. Quale artista al mondo può permettersi di vendere uno scatto a 3.150.000 dollari? Certo, potrebbe trattarsi della concatenazione di una serie di coincidenze, di un’operazione mediatico-speculativa architettata da una grande galleria che ne gestisce l’«estate» o della competizione fra due collezionisti miliardari americani, pronti a tutto pur di aggiudicarsi lo stesso lavoro.

Niente di tutto ciò: esattamente dieci anni prima, nel 2011, sempre da Christie’s a New York, uno scatto della stessa serie aveva realizzato 3.890.500 dollari e tra il 2011 e il 2021 altri dieci lavori, prodotti fra il 1978 e il 1982, avevano stabilito record a sei zeri. Parliamo di un’artista presente nelle più importanti collezioni americane ed europee, da Paul Allen alla Pinault, e nei maggiori musei di arte contemporanea, tra cui MoMA, Guggenheim e Whitney. Molti di voi hanno già capito: sto parlando di Cindy Sherman, artista, regista e fotografa statunitense, universalmente conosciuta per i suoi «autoritratti concettuali».

Classe 1954, vera e propria «living icon», vincitrice del Praemium Imperiale nel 2016, Sherman non si ritrae per protagonismo, ma per rappresentare il mondo e la cultura della sua epoca, insieme agli stereotipi che la caratterizzano. Con i suoi lavori racconta personaggi sempre diversi e affascinanti: esaltandone le caratteristiche in modo grottesco, analizza la costruzione dell’identità e la sua trasformazione. Con Richard Prince, Louise Lawler, Sherrie Levine e Robert Longo, è considerata la maggiore esponente della Picture Generation, un movimento nato a New York sul finire degli anni ’70, contestualmente all’affermazione della cultura mediatica, lanciato da una mostra dalla gloriosa galleria Metro Picture. I suoi lavori realizzati fra il 1978 e il 1982, tirati in dieci edizioni di dimensioni 61x122 cm e provenienti dalla Metro Picture, sono considerati i più importanti e performanti.

Nel 2018 ho avuto l’opportunità di vedere le sue opere alla Pinault Collection di Punta della Dogana a Venezia durante la mostra «Dancing with myself», e ne sono rimasto folgorato. Ho comprato e letto diverse monografie, una delle quali assai vissuta, probabilmente sottratta a una biblioteca americana e poi venduta clandestinamente, via Amazon, al sottoscritto. Pubblicata nel 1993 da Rizzoli, Cindy Sherman: 1975-1993, con testi di Rosalind Krauss, critica d’arte statunitense e docente di storia dell’arte alla Columbia University di New York, è una vera e propria enciclopedia che suddivide i lavori della performer per epoche e temi. La conservo con cura e venerazione quasi fosse un’antica reliquia passata dal nuovo al vecchio continente.

È difficile trovare una collocazione per Cindy nella mia collezione, divisa in correnti, composte a loro volta dagli artisti più rappresentativi. La cosa è preoccupante, non tanto perché non riesco a trovare l’innesto, quanto perché se ci sto pensando significa che mi sono messo in testa di comprare un suo lavoro. L’asta di New York deve aver stimolato qualcosa in me e, come tutti gli addicted allo straordinario mondo dell’arte Post-War, fatico a reprimere le pulsioni. Parte quindi la ricerca per un nuovo masterpiece della collezione: la pagherò, in tutti i sensi, per i prossimi trent’anni, ma Cindy sia!

La sfida è, come sempre, trovare un lavoro degli anni e delle dimensioni giusti, proveniente dalla galleria Metro Picture, dettaglio non negoziabile. Ma la Metro Picture ha chiuso nel dicembre del 2021, dopo oltre quarant’anni di gloriosa attività, e comunque la mia idea è trovare l’opera giusta in Europa. Non voglio aspettare la prossima asta statunitense, dove scontrarmi con i grandi collezionisti locali, lasciando sul campo il 29% di default alla casa d’aste. Devo comprare bene, devo arrivare all’opera giusta, devo farmi assistere da quella fortuna che mi ha accompagnato negli anni e che non può abbandonarmi proprio ora che ho bisogno di Cindy! Squilla il telefono, la mia cara amica Laetitia, ex direttrice di Hauser, mi comunica che a Sankt Moritz esiste un lavoro che corrisponde alle mie richieste: anno, misure, provenienza.

Sarei partito immediatamente per l’Engadina a piedi, ma cerco di frenare l’entusiasmo e mantenere un minimo di dignità, altrimenti perderei, oltre la faccia, anche ogni eventuale possibilità di trattare sul prezzo! Resta impassibile, Brando, dimostra freddezza, puoi farcela! Laetitia mi manda quindi l’immagine su WhatsApp: è lei, la foto, l’opera, la performance, che non so ancora come definire e non ha un indirizzo preciso nella mia collezione, ma è lei! Parto, destinazione Sankt Moritz.
 

«Untitled» (1982) di Cindy Sherman, stampa cromogenica, 121,9x61 cm. A destra, il volume «Cindy Sherman: 1975-1993»

Brando, 29 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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