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Roman Signer, «Table, Island, 1994»

Foto: Roman Signer © Roman Signer

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Roman Signer, «Table, Island, 1994»

Foto: Roman Signer © Roman Signer

Roman Signer: «Non mi preoccupo se si pensa che io sia pazzo»

Alla Kunsthaus di Zurigo è allestita un’ampia retrospettiva dell’artista svizzero in cui la vera protagonista è la scultura intesa come rilettura spesso ironica dell’object trouvé 

«Facevo il disegnatore in uno studio di architettura. Dopo una decina d’anni però dovetti smettere, altrimenti sarei morto di noia. L’arte mi ha sempre interessato, ma a quel tempo non avevo il coraggio di diventare un artista. Sono però sempre stato sportivo: mi piacevano l’atletica, l’escursionismo, lo sci. Perciò, molti miei lavori hanno trovato ispirazione dalla mia vita quotidiana»: così Roman Signer (Appenzello, Svizzera, 1938), oggi tra i più influenti artisti svizzeri, descrive gli albori di una carriera cui la Kunsthaus di Zurigo dedica, dal 4 aprile al 17 agosto, una vasta retrospettiva curata da Mirjam Varadinis in stretta collaborazione con l’artista. 

Fin dall’inizio, Signer ha immaginato la mostra come un paesaggio, scegliendo di utilizzare la grande sala espositiva come spazio unitario, privo di partizioni o tramezzature. «Distribuisco le opere nello spazio e il pubblico può esplorarle come in una passeggiata», ha spiegato al proposito. Un approccio che ben rispecchia un metodo di lavoro che al posto dell’atelier ha sempre privilegiato il contatto diretto con la natura e la realtà. «Quando, nel 1972, grazie a un programma di scambio mi recai per un anno a Varsavia per studiare sotto la guida di Oskar Hansen, la mia accademia fu la strada. Mi sono imbattuto in tante situazioni affascinanti che mi hanno plasmato», ha infatti dichiarato Signer, che in quel periodo scoprì il potenziale artistico di semplici oggetti e materiali come le bottiglie, i secchi o la sabbia, che continuano a costituire le basi del suo lavoro. 

Oltre ad alcune opere inedite realizzate per l’occasione, la mostra presenta anche fotografie e video con cui l’artista documenta quella componente performativa inscindibile da un lavoro che non a caso lo vede frequentemente protagonista. Accade così, ad esempio, in «Office chair» del 2006, ma dall’amore per lo sport dell’artista discendono in modo evidente anche opere come «Cross-country skis» (2000) o «Kayak tip» (2017). Il kayak appare del resto tra gli oggetti ricorrenti della sua cinquantennale carriera, come testimonia anche la performance «Sculpture» (2019). Vera protagonista della retrospettiva zurighese è del resto proprio la scultura, intesa come rilettura spesso ironica dell’object trouvé («Ridere è consentito, ma non è obbligatorio», ha affermato l’artista), che vede nella dimensione effimera e temporanea una delle sue caratteristiche. Accade così, ad esempio, nelle installazioni «Due ombrelli» (realizzata in Sardegna nel 2016) o «Boots», che ha avuto luogo nel 2012 in Norvegia. «Mi vedo come uno scultore e un artista d’azione (Aktionskünstler), ha affermato Signer. Ciò che non sono è un surrealista o un land artist. È vero che mi piacciono le cose semplici, ma non sono nemmeno un minimalista in senso classico, poiché le mie opere hanno un contenuto e non riguardano solo la forma. È difficile dimostrare che ciò che faccio è arte. È come se chiedessi a un poeta di descrivere dove si trova la poesia nel suo lavoro. I miei lavori sono sia intellettuali sia di pancia. E non mi preoccupo affatto se la gente pensa che sia svitato o pazzo. So di essere mentalmente perfettamente sano». 

Roman Signer, «Kayak tip, 2017». Foto: Tomasz Rogowiec. © Roman Signer

Roman Signer, «Sculpture», 2019. Foto: Tomasz Rogowiec. © Roman Signer

Elena Franzoia, 30 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Roman Signer: «Non mi preoccupo se si pensa che io sia pazzo» | Elena Franzoia

Roman Signer: «Non mi preoccupo se si pensa che io sia pazzo» | Elena Franzoia