Gabriele Simongini
Leggi i suoi articoliCome ogni italiano si sente in pectore più bravo dell’allenatore della nazionale e detta la sua personale e «invincibile» formazione, così ora proliferano come funghi coloro che con toni talvolta noiosamente professorali annunciano al mondo come avrebbero fatto la mostra «Il Tempo del Futurismo», capace di risvegliare una parte della cultura italiana da un sonno letargico. Dando una scossa elettrica e agendo come il detonatore per un’esplosione dialettica che sarebbe piaciuta a Marinetti & Co. possiamo quindi dire che la mostra ha già vinto la sua sfida. Da oltre sei mesi ne stiamo sentendo di tutti i colori, con molte falsità: dai trecento milioni di euro che sarebbe costata la mostra secondo un noto quotidiano, all’uso dei caratteri neri per il titolo della mostra nella copertina del catalogo che rivelerebbe un chiaro riferimento al fascismo (roba da sbellicarsi dalle risate!), fino ai capolavori di Balla, Boccioni & Co. definiti recentemente come «colorate stramberie» da un giornalone fra i più diffusi. Per non parlare di un docente universitario, storico dell’arte nonché rettore che ha attaccato pesantemente la mostra per motivi ideologici pur dichiarando che non l’ha vista né l’avrebbe mai visitata, dando così un esempio di poca professionalità ai propri studenti.
Se avessi dovuto ascoltare tutti i desiderata che sono stati pubblicati o espressi in questi mesi da esperti più o meno noti ma anche da tanti carneade avrei dovuto fare una mostra di almeno ottocento opere, davvero faraonica, «fuori misura» e magari compromessa con interessi di mercato, da cui io sono completamente immune, al contrario della gran parte di coloro che ora si scagliano contro «Il Tempo del Futurismo». È inutile negare che proprio questo rigore e trasparenza d’intenti diano fastidio a molti, abituati a coltivare il proprio «orticello» d’interessi.
Purtroppo, nella maggior parte di questi commenti a cui non voglio dedicare il mio tempo, prevalgono quasi sempre la rabbia e l’acrimonia dettate da un pregiudizio faziosamente ideologico. Spero che non rientri in questo contesto il recente articolo pubblicato da «Il Giornale dell’Arte» e firmato da uno stimabile collega come Fabio Benzi, che in realtà si dimostra ancora profondamente turbato dal non aver visto arrivare in Italia, al MaXXI, la sua mostra «Futurism and Europe. The Aesthetics of a New World», presentata al Kröller-Müller Museum, in Olanda. E mi sorprende che Benzi, quasi sempre così preciso, si azzardi a scrivere, sulla base delle sue sensazioni, senza informarsi minimamente sui dati concreti dei visitatori, che «così presentato il Futurismo non eccita il pubblico».
Mi dispiace deluderlo, ma l’affluenza è in crescita costante e attualmente si attesta su 800-1.000 visitatori nel singolo giorno feriale per arrivare ai circa 4.500 visitatori del binomio sabato/domenica, con punte ancora più alte quando si svolgono i talk futuristi organizzati da Federico Palmaroli. Per non parlare delle scolaresche che affollano quasi tutte le mattine feriali, con grandissimo entusiasmo. Senza dubbio gli artisti si dimostrano più intelligenti e liberi da condizionamenti politici rispetto a tanti cronisti e commentatori e non a caso sono arrivati molti apprezzamenti importanti alla qualità e novità della mostra da nomi del calibro di Alberto Biasi, Roberto Floreani, Sergio Lombardo, Marco Tirelli, solo per dirne alcuni.
I visitatori elogiano il percorso chiaro e ordinato ma a Benzi il risultato appare «appannato e confuso», magari per quella fretta che non è buona consigliera. Così come gli è completamente sfuggito un altro pregio esaltato dai visitatori: la mostra si fonda su un percorso e su un flusso allestitivo continuo e quasi ininterrotto, rafforzato dalle superfici specchianti che smaterializzano i varchi fra sala e sala creando una continuità dinamica di riflessi fra i vari ambienti e un effetto sorpresa laddove all’improvviso il visitatore vede anticipate negli specchi opere delle sale successive: il «dopo» convive col «prima». Si realizza così una sorta di simultaneità visiva, sia pur parziale e frammentaria, in omaggio ai futuristi. Allo studioso sfugge che la prima sala è un incipit compendiario alla mostra che porta dalla «tradizione» precedente rappresentata dalla pittura sostanzialmente realista del capolavoro «Alla stanga» (con più mucche e non una sola, come scrive Benzi) di Segantini alla novità del suo stesso divisionismo e poi al confronto/dialogo eccezionale fra «Il Sole» di Pellizza da Volpedo e «Lampada ad arco» di Balla.
In tal modo, il visitatore ha alle sue spalle una sintesi dell’Italia agricola e rurale che verrà superata dall’avvento del «mondo nuovo» sostenuto a gran voce dai futuristi. Quella che Benzi definisce con disarmante superficialità «quantità esorbitante di grammofoni e macchine da scrivere, automobili e motociclette» ha invece lo scopo di far immergere il visitatore in un contesto in cui le scoperte tecnologiche e i nuovi mezzi di locomozione non erano solo l’emblema della velocità ma anche portatori di nuovi canoni di bellezza. Non entro, perché questa non è la sede adatta, negli eventuali problemi di datazione o di titoli evidenziati dal collega per 3-4 opere, fra cui alcune di proprietà della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e altre del Museo del Novecento di Milano, musei con cui sarebbe stato meglio confrontarsi seriamente, dati alla mano, e non frettolosamente in un articolo divulgativo e sottilmente polemico.
Nessuno nega a priori la possibilità che possa essere stata compiuta qualche piccola imprecisione, come è umano, e d’altro canto ci si sente sollevati dal fatto che anche Benzi ne commette: l’opera di Balla «Linea di velocità+forma+rumore», da lui citata in relazione a una data considerata inesatta, non fa parte della Donazione Balla alla Gnam, come scrive Benzi sbagliando, ma fu acquistata da Gaspero del Corso nel 1968 dalle figlie di Balla e poi ceduta nel 1970 alla Gnamc. Per dimostrare che la data sarebbe inesatta non basta dire, come fa Benzi, che «per la grammatica compositiva e la firma non si potrebbe mai riconoscere di quella data». Servirebbe uno studio serio e approfondito. Mi permetto però di tranquillizzare Benzi sul fatto che nella prima ristampa del catalogo Treccani, che sta avendo un grande successo di vendite, abbiamo corretto proprio un suo errore, restituendo il titolo originario di «Risveglio di primavera» a un’opera di Balla della Collezione Biagiotti che proprio Benzi, per anni, ha pubblicato ed esposto come «Espansione di primavera», sbagliando anche la tecnica e perfino le misure, che ora sono state corrette. Per non parlare della datazione, che meriterà ulteriori approfondimenti. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», verrebbe da dire. E con l’occasione, in seguito a studi seri, verrà per la prima volta datata 1916-18 l’opera della Gnamc «Trasformazione forme-Spiriti».
Non voglio annoiare il lettore con precisazioni che competerebbero ad altre sedi, anche per quel che riguarda il catalogo. Partendo proprio dalla conclusione positiva dell’articolo del collega che almeno ha riservato alla mostra un «dulcis in fundo», mi preme sottolineare che grazie alle oltre cento opere della Gnamc, molte delle quali riportate alla luce dai depositi, si crea un intreccio strettissimo fra museo e mostra, l’uno fluisce nell’altra e viceversa con un reciproco arricchimento, in una dialettica dinamica fra opere che resteranno e opere che partiranno, un po’ come avviene negli «stati d‘animo» di Boccioni. Ad maiora.