Sbagliato il «ritorno al futuro»
(…) Siamo di fronte ad una vasta e solida mostra e non a quello che si temeva: una messa in scena d’epoca con pochi e dubbi quadri di contorno a una macchina di entertainment. Qui invece ci sono opere di eccezionale qualità (...) Sembrano francamente inutili ingenue e sempliciste le fughe in avanti proposte dalle didascalie che vogliono per forza legare la rivoluzione digitale a quella futurista o le forzature che vedono Guglielmo Marconi (c’è una sala interamente dedicata a lui) come bisnonno di Steve Jobs. Infatti, l’unica vera caduta di questa rassegna è nel «ritorno al futuro» nel voler immaginare un Marinetti che già vede internet o un aeropittore che anticipa i viaggi su Marte di Elon Musk. Che queste fughe in avanti non funzionino è ampiamente dimostrato nelle ultime, inutili sale della mostra. Quelle sull’«Eredità del Futurismo» dove in un discutibile mix and match si battezzano figli del Futurismo tanto il Pop romano che l’Arte Povera, si espone un Tinguely accanto a un Fabro, i «32 mq di mare circa» di Pino Pascali sotto un sacco di Alberto Burri e intorno tele colorate di Dorazio, plurimi di Vedova, la colonna di Zorio e un pannello cinetico di Alberto Biasi. Tutti insieme confusamente in una cattiva scrittura visiva a indebolire invece che fortificare il progetto (...).
Alessandra Mammì, «Artribune»
Gigantesca e onesta
(...) Il peccato originale di questa mostra (...) sta nell’essere stata di fatto organizzata e gestita direttamente dal Ministero della Cultura, come se fosse l’Assessorato di un Comune qualsiasi (...). La mostra è oggettivamente gigantesca, con 350 tra opere (...). Un problema essenziale è dato dagli spazi troppo grandi e iper-illuminati della Gnam per opere che, soprattutto nella prima parte, hanno dimensioni esigue e borghesi (...), che schiacciano la mostra in particolare nelle fasi iniziali (...). Ma soprattutto non c’è un guizzo nella scansione omogenea e priva di brio delle pareti. (...) Per quanto riguarda l’accostamento tecnologia e arte, è difficile non notare come nel grande salone, senza dubbio spettacolare, le automobili e le motociclette oscurino e divorino i quadri alle pareti. Tra l’altro quasi nessuno di questi improntato al tema della velocità: tutti i lavori astratti di Balla sul movimento li troviamo in una sala successiva, dedicata all’intonarumori. Coerente invece la sala sull’aeropittura (ma in generale il secondo Futurismo è meglio rappresentato del primo), costruita attorno all’idrovolante. La mostra in sé è onesta e tutto sommato esaustiva del mondo futurista, con molti nomi di secondo e terzo piano a testimoniare la vastità del fenomeno, ma non appare di portata internazionale come nelle intenzioni. Inoltre, ed è un pregio, evita secche ideologiche (...).
Alessandro Beltrami, «Avvenire»
Bell’inizio, poi diluita
(...) Va in scena una mostra che si potrebbe definire scolastica. (...) Una scansione cronologica, paratattica, minimalista, conformista, priva di sussulti. (...) Una rassegna lacunosa anche rispetto all’intento d’essere una mostra per tutti, perché gli apparati sono ridotti ai minimi termini (...). Non che manchino i pezzi importanti, ma per essere la più importante mostra italiana degli ultimi dieci anni le assenze sono tante (...). Mancano poi (...) alcuni lavori fondamentali dall’aeropittura (...) la scultura è quasi totalmente non pervenuta (...). Il giudizio non deve neppure eccedere in senso opposto, anche perché l’inizio del percorso è effettivamente roboante, con una prima sala raffinata, che evoca le premesse del futurismo con una piccola ma densissima infilata di capisaldi del divisionismo (...) Un inizio denso, potente, che accompagna i visitatori verso un’altra sala dove sfilano le opere dei futuristi prima del Futurismo, di altri grandi divisionisti (Previati su tutti) e di alcuni notevoli antesignani (...). Poi, dopo la deflagrazione, la mostra comincia a perder forza, vigore, intensità, subisce qualche sfasamento cronologico (...) e va incontro a una diluizione ch’è del resto ineludibile in un percorso ch’è fatto per grossa parte di pezzi tirati fuori dai depositi della Gnam (...). Senza le aspettative della lunga vigilia, «Il Tempo del Futurismo» sarebbe stata una delle tante mostre sul Futurismo che a cadenza quasi annuale vengono organizzate nei musei italiani (...).
Federico Giannini, «Finestre sull’Arte»
Che cosa manca, ventennio desaparecido
Manca «La città che sale», dipinto fondamentale per un’esposizione «epocale» sull’argomento, mai atterrato dal MoMA. Manca la «guerra sola igiene del mondo», soprattutto. (...) Eppure, dalla nascita del movimento non insensibile alle armi, di conflitti mondiali se ne sono succeduti due. Il Ventennio è quasi desaparecido, spunta la «Testa di Mussolini» (1933) di Renato Bertelli (...) Ma è come se si fosse tentato di anestetizzare la parte più scomoda del marinettismo e delle sue derive. (...)
Dario Pappalardo, «la Repubblica»