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Thomas S. Kaplan

Foto © Aad Hoogendoorn

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Thomas S. Kaplan

Foto © Aad Hoogendoorn

Thomas Kaplan: «La scuola di Rembrandt mi affascina da sempre»

L’imprenditore franco-americano ripercorre la genesi della sua eccezionale collezione di opere olandesi del Seicento, riunite fino a fine agosto in una mostra all’H’ART Museum di Amsterdam. Il primo incontro con il maestro olandese: a 6 anni, al Metropolitan di New York

Thomas S. Kaplan (New York 1962) è un imprenditore e investitore franco-americano, ambientalista e collezionista d'arte. Studi in Svizzera e all’Università di Oxford, dove ha conseguito la laurea, il master e il dottorato in Storia, è presidente di The Electrum Group, società di investimenti in metalli preziosi, e ha fondato l’ente di conservazione naturale Panthera con sede a New York. L’organizzazione contribuisce alla conservazione delle sette specie di grandi felini: ghepardi, giaguari, leopardi, leoni, puma, leopardi delle nevi e tigri. Dalla sua fondazione nel 2017, e fino al 2023, ha ricoperto la carica di presidente dell'Alleanza internazionale per la protezione del patrimonio nelle zone di conflitto (Aliph), con sede a Ginevra, che finanzia l'attuazione di programmi di prevenzione, risposta alle emergenze e restauro dei beni culturali in pericolo di distruzione o danneggiamento a causa di conflitti armati. Con la moglie, Daphne Recanati, Kaplan ha iniziato a collezionare opere d'arte del Secolo d'oro olandese nel 2003. Nel giro di pochi anni i Kaplan hanno fondato la Leiden Collection, chiamata così in onore della città natale di Rembrandt. Il loro interesse nei confronti del pittore e della sua cerchia si è presto trasformato in una delle più importanti collezioni private di arte olandese del Seicento. 

Thomas Kaplan, com’è nata la sua passione per Rembrandt?
Tutto è iniziato con un primo incontro, quando avevo 6 anni. Un fine settimana, mia madre mi portò al Met, il Metropolitan Museum of Art di New York. Le opere di Rembrandt che ho scoperto lì mi hanno immediatamente affascinato. Da quel momento, ho insistito per tornarci ogni fine settimana. Passavo molto tempo davanti ai quadri di Rembrandt, poi andavamo a comprare un hot dog da un venditore ambulante: era diventato un rito tra me e mia madre. Poi mia madre ha pensato bene di diversificare i miei gusti mostrandomi altre forme d’arte. Così mi ha portato al MoMA (Museum of Modern Art). Arrivato davanti a una grande tela bianca attraversata da una linea rossa, ho alzato le braccia al cielo chiedendo di tornare al Met!
Non ricordo esattamente il primo Rembrandt che ho visto. Ma ricordo molto bene quello che mi ha colpito quando sono tornato al Met, mentre soffrivo di stress post traumatico dopo la mia esperienza con l'arte contemporanea... Si trattava di «Aristotele che contempla il busto di Omero». Non appena mi sono trovato di fronte a quest’opera ho provato un immediato senso di pace.
Anni dopo, durante un viaggio in Europa per far visita a mia sorella a Madrid, ho chiesto ai miei genitori di andare ad Amsterdam: «È lì che ha vissuto Rembrandt», ho detto. È così che è nata la tradizione.

Che cosa l’ha spinta a creare la sua collezione?
Avevo più o meno quarant'anni ed ero stato invitato in Croazia dalla sorella di uno dei miei migliori amici, Francesca von Habsburg. Durante una cena, mi sono ritrovato seduto accanto a un personaggio particolarmente sorprendente: Sir Norman Rosenthal, allora segretario delle esposizioni alla Royal Academy of Arts di Londra. Mi ha chiesto se fossi un collezionista. Mia moglie, Daphne Recanati, collezionava già oggetti di design del XX secolo: Jean Prouvé, Charlotte Perriand e alcuni designer italiani che anche io apprezzavo molto... Ma per quanto mi riguardava, no. Allora mi ha chiesto: «E se collezionasse, che cosa collezionerebbe?». Ovviamente ho risposto la scuola di Rembrandt, che mi ha sempre appassionato, pur essendo convinto che fosse impossibile acquistare opere del genere. Rosenthal mi ha rapidamente convinto del contrario. Il mio primo acquisto è stato un ritratto firmato Gerrit Dou. La collezione era nata.

La Leiden Collection è stata esposta per la prima volta al Louvre di Parigi nel 2017. Da allora avete fatto nuove acquisizioni?
Direi che dalla mostra al Louvre la collezione si è arricchita di una ventina di opere, tra cui cinque Rembrandt. Il ritmo però non è più lo stesso: nei primi cinque anni acquistavamo quasi un quadro alla settimana!
All’epoca, quando cercavo un Metsu, un Dou o un Rembrandt, mi veniva sempre proposta un’opera. Siamo arrivati al momento giusto: la passione e il denaro ci hanno permesso di soddisfare il nostro gusto particolare per la pittura olandese. È stato un momento unico, oggi una collezione del genere non potrebbe più essere ricostituita.

Quali sono stati i criteri per costruire la vostra collezione? Sono cambiati nel tempo?
Quando si osserva la collezione, si nota che non ci sono paesaggi in senso stretto, né nature morte: è interamente dedicata alla figura umana. All’inizio non era una scelta deliberata, ma si è imposta naturalmente. Si tratta di scene storiche, scene di genere o ritratti, spesso arricchiti da magnifici paesaggi o nature morte sullo sfondo, ma c’è sempre una presenza umana. Questo è il primo criterio.

Dal punto di vista estetico, ovviamente, è importante che il quadro piaccia a me e a mia moglie. Ma ci è anche capitato di acquistare opere che dal punto di vista estetico non mi hanno colpito dal punto di vista estetico. Prendiamo ad esempio «La madre di Rembrandt»: mi ci è voluto del tempo per apprezzarla. Più la contemplavo, più ne percepivo la modernità. Alcune opere sono importanti da acquisire anche dal punto di vista scientifico. D’altra parte, la questione decorativa non entra mai in gioco: non si tratta mai di pensare se «starà bene sopra il divano». La collezione non è nemmeno enciclopedica. Molti artisti di quel periodo non vi figurano. A volte abbiamo solo una o due opere dello stesso pittore, ma il più delle volte ne possediamo dieci o quindici, che coprono l’intera carriera, dalla giovinezza alla maturità. Direi quindi che quando amiamo un artista, lo amiamo profondamente!

Ha delle ossessioni in termini di acquisizioni?
La cosa che più si è avvicinata a un’ossessione è il «Busto di vecchio barbuto» di Rembrandt. Probabilmente perché il proprietario si rifiutava di vendermelo...

Era diventata una ricerca?
In questo caso specifico, sì, era chiaramente una ricerca.

Come quando si cerca la pantera delle nevi...
Sì! Potrei mostrarvi alcuni video!...

Nel catalogo della mostra all H’ART Museum, lei cita la famosa frase che Dostoevskij fa dire al principe Myskin in «L’idiota»: «La bellezza salverà il mondo». Ha una definizione di bellezza?
Per me la bellezza è ciò che tocca l’anima. E non è sempre ciò che si definirebbe spontaneamente «bello». Ricorda la famosa foto di Robert Capa, quella del soldato spagnolo con le braccia aperte, immortalato nel momento della morte? È religiosamente sublime. Non mi fraintenda: non mi piace che si provi shock. Tuttavia, questa foto è di una bellezza incredibile per l’impatto che ha sui nostri cuori. Ma non è una definizione comune di bellezza. Rembrandt, invece, tocca la bellezza universale. È questa la differenza. Quando il premio Nobel per la letteratura russa, Aleksandr Solzenicyn, cita questa frase di Dostoevskij nel suo discorso a Stoccolma, lo fa innanzitutto per deplorarne la vacuità, perché la bellezza non salva nulla. Ma poi arriva a evocare quella trinità formata dalla verità, dalla bontà e dalla bellezza. Ora, quando la verità e la bontà scompaiono, è sulla bellezza che ricade il peso delle altre due. Allora ho capito che ciò che diceva Dostoevskij non era una tirata vuota, ma una nobile profezia. E il denominatore comune di ciò che mi commuove profondamente nella mia vita è proprio questo: la bellezza. Nient’altro che la bellezza.

Rembrandt van Rijn, «Busto di vecchio barbuto», 1633, olio su tela, New York, Leiden Collection

Amandine Rabier, 18 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Thomas Kaplan: «La scuola di Rembrandt mi affascina da sempre» | Amandine Rabier

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