Non potrebbe essere più oggettivo, né più aderente alla natura stessa della pittura di Niele Toroni (nato a Muralto, Locarno, nel 1937, attivo a Parigi dai suoi vent’anni) il titolo («Niele Toroni. Impronte di pennello n. 50») della mostra che A arte Invernizzi dedica a Milano all’artista svizzero-francese dal 4 dicembre al 12 febbraio prossimo. Attenzione, però: lui non vuole essere chiamato artista, bensì pittore. Si è già ammorbidito in realtà, perché nel 1967, a Parigi, mentre sobbollivano le prime lave del ’68, in occasione del «Salon de la Jeune Peinture» chiuse la polemica dichiarazione programmatica firmata con Daniel Buren, Olivier Mosset e Michel Parmentier con uno stentoreo «Noi non siamo pittori».
Come notava Giorgio Verzotti commentando i suoi storici lavori della collezione del Castello di Rivoli, quel «programma ha rappresentato uno dei momenti radicali di quella messa in discussione dello statuto della pittura che è stato tipico degli anni Settanta. Toroni, al pari di Buren e degli altri firmatari, ma anche di tutti gli esponenti dell’Arte Concettuale, inaugurava un lavoro critico rispetto ai protocolli espressivi dell’arte». Dal 1967 Niele Toroni non ha più smesso di applicare, a intervalli regolari di 30 centimetri e servendosi sempre di un pennello n. 50, impronte di colore su superfici di diversa natura: tela, tela cerata, carta, giornali, muro, legno.
Da Invernizzi, Toroni ritorna dopo precedenti personali in cui ha lasciato in permanenza nella galleria le sue inconfondibili «impronte»: nel 2007 sulla porta d’ingresso, nel 2011 sulle pareti dello spazio del piano inferiore. In questa nuova rassegna presenta 25 opere realizzate in formati e su supporti diversi dal 1965 («Omaggio a Paolo Uccello») fino all’album recente «Impronte di pennello n.50 a intervalli di 30 cm “A nous la liberté”», in cui impronte di colori diversi si susseguono ritmicamente sui singoli fogli in una successione di volta in volta variata, pur all’interno dello schema rigidissimo che l’artista si è imposto. Già perché, come scriveva Harald Szeemann, «Niele Toroni ripete la sua impronta di pennello nel tempo e nello spazio dal 1967. E mai è la stessa cosa, perché lo stesso è lo stesso e lo stesso è irriducibilmente dissociato dall’essere identico». Più di recente, un collezionista innamorato del suo lavoro, in cui «la semplicità diventa perfezione», si domanda (e si risponde) «Si può dipingere per tutta la vita lo stesso quadro e riuscire a farlo apparire comunque sempre nuovo e diverso? Niele Toroni ci è riuscito».
A conferma giunge la mostra da Invernizzi (in catalogo, un saggio di Paolo Bolpagni), che al piano superiore presenta dapprima tre opere dello scorso decennio, dove le impronte di pennello, ripetute su fogli di cartone posti sulla parete, ridefiniscono le coordinate dello spazio, poi tre importanti opere degli anni ’70 su supporti differenti, mentre al piano inferiore s’impongono i grandi lavori degli anni tra i ’90 e i Duemila, che testimoniano la stupefacente varietà degli esiti, pur nella ripetizione del suo gesto.