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Camilla Bertoni
Leggi i suoi articoli«Quello che non ho venduto»: s’intitola così la mostra con la quale, dal 7 dicembre, lo Studio la Città festeggia i suoi cinquant’anni. Sono poche le gallerie che possono vantare dieci lustri sempre sotto la stessa guida, in questo caso quella di Hélène de Franchis.
Quello che non ha venduto la rappresenta più di quello che ha venduto? Quali opere ricostruiscono la storia di questa galleria?
Vorrei che fosse una sorpresa, lascerò agli altri giudicare se ciò che ho tenuto mi rappresenta. C’è comunque una scelta di opere che testimoniano ciascuna un momento diverso di questa avventura. Si vedono tante facce, tante storie in un videocollage. Non ho voluto cercare un’autocelebrazione, ma piuttosto ho seguito l’idea del raccontarsi in maniera divertita e divertente.
È vero che si tratta di un’avventura iniziata un po’ per caso?
Un gruppo di imprenditori aveva deciso nel 1969 di aprire a Verona una galleria. Mi chiesero di dirigerla: conoscevo Lucio Fontana, avevo viaggiato, avevo fatto la mia tesi sull’architettura romanica, molto minimalista, come l’arte degli anni ’70. Sono capitata qui pensando di starci un anno, e invece... Non ero sicura di saper vendere, ero curiosa di conoscere gli artisti, mi piaceva portare qui un’arte che era ancora poco conosciuta. Iniziammo in modo cauto, con Spazzapan, ma dal ’70, quando la galleria divenne mia, dopo Dorazio e Schifano, feci una mostra di Fontana e poi di Gianni Colombo, una mostra «scandalosa», solo luci che giravano.
«Le stagioni di una galleria sono tasselli di un unico autoritratto del gallerista». Così scrive Marco Meneguzzo: condivide?
Ho scelto sempre opere e artisti che prima di tutto mi dovevano piacere e non ho mai pensato di seguire la moda. Scegliere le opere e montare la mostra è la cosa che più mi piace del mio mestiere, e un mio allestimento equivale alla mia firma.
Com’è cambiato il mondo dell’arte?
Con internet tutto è cambiato: fino a quel momento le opere che si esponevano identificavano una galleria e non si vedevano facilmente altrove. Anche se è cambiato l’approccio e i collezionisti possono vedere e scegliere tutto online (ci sono vantaggi e svantaggi), io non credo di essere cambiata e ho continuato a scegliere le cose che mi piacciono e mi incuriosiscono. All’inizio degli anni ’70 c’erano due collezionisti a Verona, Mario Orsatti e Luciano Antonini: avevano comprato un appartamento e buttato giù i muri per mettere le opere in un posto che non era il loro salotto. Era un comportamento inedito, avevano Andy Warhol, Jim Dine, Giulio Paolini, Mattiacci, Rothko… Una volta andai con loro a una mostra di Albers, eravamo in Ferrari. Tornammo in treno con un bellissimo dipinto di Albers in mano, ma senza Ferrari. Cose così credo non possano più accadere oggi.
E Verona, com’è cambiata?
Oggi ci sono meno gallerie, più appiattimento, e devo constatare che l’amore per la cultura non è aumentato. L’assenza di un museo di arte contemporanea ha fatto un’enorme differenza. Pensi che le gallerie austriache o francesi erano sostenute alle fiere con contributi pubblici per esportare la cultura del loro Paese. Per questo sarebbe stato importante avere almeno il museo a dare garanzia al valore del nostro lavoro, che evidentemente non è certo solo commerciale.
Tuttavia c’è un microcosmo che ruota attorno alla galleria…
Nel ’78 feci una mostra di Robert Mangold, il non plus ultra allora del Minimalismo americano. Ero fierissima di essere riuscita a portare in vicolo Samaritana, la mia prima sede, le sue opere. All’inaugurazione però c’erano pochissime persone, ci rimasi malissimo, anche se le cinque persone che «capivano» c’erano. Adesso è diverso, viene tantissima gente. Un microcosmo, sì, l’ho creato, vengono persone dall’estero.
Ha fatto due cambiamenti di sede, con l’approdo in uno spazio quasi museale...
Nell’89 ci siamo trasferiti nel quartiere Filippini, con una sede più grande che ci consentiva di organizzare incontri e cene. Da dodici anni siamo nella sede ricavata nelle ex Officine Galtarossa, un’archeologia industriale, uno spazio ideale. La luce naturale e le dimensioni ci hanno consentito una nuova libertà. E oggi più che alla città, il nostro lavoro è rivolto al mondo.
E dal 2020?
Anno zero? Spero ancora di incontrare un giovane artista che riesca ad affascinarmi, farmi capire cose nuove, sentire nuove emozioni; spero di trovare altri bellissimi spazi per continuare a organizzare mostre fuori Verona. Nei miei desideri non ci sono fiere, ma solo la libertà di approfondire la conoscenza.

Hélène de Franchis
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