La mostra «Il Cinquecento a Ferrara. Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso», dal 12 ottobre al 16 febbraio 2025 nel Palazzo dei Diamanti, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli con Pietro Di Natale, organizzata da Fondazione Ferrara Arte e Musei d’Arte del Comune di Ferrara, costituisce il secondo «movimento» del sinfonico progetto «Rinascimento a Ferrara. 1471-1598: da Borso ad Alfonso II d’Este», che esplora il tessuto artistico ferrarese all’apice dell’età estense nel variato scenario degli oltre due secoli dall’elevazione della città a ducato e la sua sofferta devoluzione dalla Casa d’Este allo Stato Pontificio.
Logica prosecuzione dell’episodio precedente, «Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa», la mostra racconta la pittura del primo Cinquecento a Ferrara, negli anni d’oro da Ercole I d’Este (morto nel 1505) al figlio Alfonso (morto nel 1534), committente di ampia «cognoscentia» e ancor maggiori ambizioni, nonché attento rinnovatore degli spazi pubblici della città e di quelli privati della corte estense, grazie anche alla rarefatta e colta influenza, di romana formazione, della sposa Lucrezia Borgia.
Usciti di scena Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, gli Este affrontarono la sfida di un’adeguata «renovatio» artistica e già nel 1496 la scelta di Boccaccio Boccaccino indica la ricerca di un linguaggio più morbido e più consono all’Umanesimo di seconda generazione in quegli anni fiorente in Italia: con gli esordi del XVI secolo si forma così una nuova «Scuola Estense» che (meno autoctona e autoreferenziale della precedente Scuola Ferrarese e perciò più aperta alle reciproche interazioni con gli altri grandi centri culturali del Rinascimento padano ed oltre) fece protagonisti Ludovico Mazzolino, Giovan Battista Benvenuti l’Ortolano, Benvenuto Tisi il Garofalo e Dosso Dossi (Giovan Francesco di Niccolò Luteri).
Come spiega il curatore Michele Danieli, la mostra ha due speciali «punti di forza»: «Il primo, più immediato, è costituito dal percorso espositivo: non a sezioni isolate e impermeabili bensì con i quattro protagonisti che in dinamica si affiancano e si rincorrono, si rimbalzano e si confrontano fra loro e con gli artisti loro contemporanei. Il secondo, e sostanziale, è l’approfondimento monografico che finalmente si dedica a Ludovico Mazzolino e all’Ortolano: se Garofalo e Dosso sono già stati approfonditi in passato, viceversa il debutto di Mazzolino e Ortolano colma un’ingiusta lacuna e illustra le sfumature più variegate della pittura ferrarese dei primi decenni del XVI secolo con l’assoluta novità espositiva della fantasiosa bizzarrìa del primo e della nobile purezza del secondo».
Benché nati ambedue a Ferrara e coetanei, i due pittori ebbero percorsi diversi: Ludovico Mazzolino (1480 ca-1528 ca) si formò ai modelli di Ercole de’ Roberti e del primo Lorenzo Costa, ma orientò poi la sua poetica in senso anticlassico guardando alla pittura tedesca: Martin Schongauer e Albrecht Dürer in primis. Nonostante conosca Boccaccino e la pittura veneziana, e perfino Raffaello o le antichità classiche, il linguaggio di Mazzolino è sempre intenso di accenti visionari e di rumorosa vivacità che ne fa uno di quegli artisti «eccentrici» che animano in dissonanza la scena pittorica dell’Italia Settentrionale, e proprio come il più noto fra quelli (Amico Aspertini) Mazzolino presenta opere impeccabili per tecnica ma gremite di personaggi dalle sembianze grevi, grottesche, inquietanti: vero ribelle agli ideali di armonia ed equilibrio trionfanti con Raffaello. All’estro «contrario alle regole» di Mazzolino, l’Ortolano (1480/85-1530 ca) raffronta un naturalismo convinto e sincero: dopo l’esordio di native tenerezze echeggianti Boccaccino, Costa e Francesco Francia, Benvenuti sviluppa la sua cifra pittorica prima sull’onda veneziana di Giorgione poi sulla novità di Raffaello.
Alle pale d’altare eseguite tra il 1510 e il 1530, di «classicismo naturale e illusionistico» (Roberto Longhi), affianca opere per la ricercata cortigiana devozione privata, in cui l’influenza raffaellesca si coniuga a suggestioni venete, evidenti soprattutto nella declinazione del paesaggio, dove il caratteristico e seduttivo chiarore illumina i personaggi e oggetti e paesaggi si mostrano in composizioni di solo apparente semplicità. Fra estetica ed eleganza, nei riferimenti di Ortolano brilla Benvenuto Tisi il Garofalo (1481-1559), pittore di assoluta delizia e mai leziosa epitome della «douceur de vivre» della corte estense.
Allievo di Domenico Panetti e Boccaccino, Garofalo mostra ben presto una spiccata intelligenza figurativa, che gli consente di misurarsi «promptus et paratus» con le variegate novità fiorenti nelle altrettante piccole o grandi corti italiane. Dopo aver seguito anch’egli (fino al 1510 ca) la pittura veneziana e Giorgione, Garofalo s’impose come principale interprete e divulgatore ferrarese dello stile di Raffaello, di cui comprende perfettamente la portata e di cui segue lo svolgimento con attenta e, ancor più, creativa interpretazione. Molte nelle chiese ferraresi le sue pale d’altare, composte d’atteggiamento ma di sofisticata cortigianeria, presenti in musei e collezioni private del mondo intero i suoi estatici dipinti mondani, a Ferrara risplende il sontuoso, equilibratissimo, seducente soffitto (affrescato sul modello della «Camera degli Sposi» di Mantegna) della Sala del Tesoro di Palazzo de’ Costabili (o di Ludovico il Moro, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale).
Binario a Garofalo si muove Dosso Dossi (1486 ca-1542), pittore di predilezione alla corte di Ferrara con Alfonso I ed Ercole II. Giunto nel 1513 dalla Mantova dei Gonzaga alla Ferrara degli Este, qui lavora con Garofalo al noto «Polittico Costabili» in Sant’Andrea (oggi alla Pinacoteca Nazionale) e la sua mano giovanile molto narra dell’influenza di Giorgione e Tiziano, dai quali trae splendente profondità di colore e luce tutta «venexiana». Nella sua prima opera sicuramente datata, la spettacolare «Madonna col Bambino in gloria e santi» per il Duomo di Modena (1521), già s’intuisce l’avvenuto contatto con Michelangelo e la cultura romana: da quel dipinto in poi Dosso sviluppa il proprio stile personale: acculturato ma libero, ironico, divertito, grazie anche alla stretta sintonia con Alfonso I. Se Garofalo monopolizza le commissioni devozionali, Dosso è padrone delle imprese ducali di eroici temi di poesia, mito e allegorie, tratti spesso dall’Ariosto.
Ma la scena della pittura estense non sarebbe completa senza il paragone locale con Domenico Panetti, Boccaccio Boccaccino, Lazzaro Grimaldi, Niccolò Pisano, il Maestro dei Dodici Apostoli e quello «foresto» con Fra Bartolomeo, Romanino, Amico Aspertini, Albrecht Dürer: il percorso espositivo (che induce anche alla Pinacoteca Nazionale nel piano nobile di Palazzo dei Diamanti) guida in quella stagione così ricca di messi artistiche («opima» come i fianchi di Laura Dianti, l’amante di Alfonso I ritratta da Tiziano), dove antico e invenzione, sacro e profano, storia e leggenda si fondono in quella cinquecentesca squisita figurazione che è tutta ed esclusivamente ferrarese.