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Diplomazia culturale, tutela del patrimonio e promozione della legalità sono alcune delle parole chiave intorno a cui ruota l’operazione museale che celebra il rientro in Italia dall’Altes Museum di Berlino di 25 capolavori della ceramografia apula, esposti al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia nella mostra «Miti greci per principi dauni» (fino al 16 marzo).
Le restituzioni e gli scambi fra il nostro Paese e altri Stati esteri sono ormai sempre più frequenti. Che però sia proprio la Germania a riportare in Italia quello che due secoli prima gli ambasciatori dei più importanti e nobili collezionisti «prussiani» venivano a cercare in una delle province più meridionali (e povere) del Regno di Napoli, la Puglia, sembra uno di quei cicli perfetti che solo la storia può riprodurre. Quella Puglia che il capitano Friedrich Maler, agente del granduca di Baden, chiamava «la terra dei vasi per antonomasia», e da cui aveva esportato numerose e significative antichità per il costituendo Museo granducale di Karlsruhe.
Gli omologhi degli stessi interlocutori di un tempo, ministri, ambasciatori, rappresentanti delle forze dell’ordine e funzionari del «Ministero degli Interni», da sempre in lotta fra interessi privati (collezionisti anch’essi) e «bene» pubblico, li ritroviamo oggi invece uniti nel contrastare quel fenomeno che ha visto partire all’estero centinaia dei nostri vasi, bronzi, terrecotte, ori più belli (emblematici i casi di Ruvo di Puglia e Canosa), e questo è un evento felice, una vittoria su tutta la linea. L’antefatto del «nostos» si articola in due fasi, ricostruite attraverso le indagini investigative: la «collezione» fu dapprima acquisita dalla famiglia svizzera Cramer, quindi venduta nel 1984 all’Altes Museum dal commerciante di antichità Christopher Leon per 3 milioni di marchi. Non ci sono, tuttavia, altre informazioni sul percorso dei vasi anteriormente alla metà degli anni Ottanta.
In quali forme, attraverso quali intermediari, hanno raggiunto la Germania? Da dove provenivano e per chi erano stati creati gli esemplari più monumentali, i crateri apuli a figure rosse riccamente decorati e istoriati? Alla prima domanda non sembra si possa più dare una risposta, sebbene ulteriori ricerche e l’incrocio tra documenti d’archivio e atti d’indagine potrebbero riservare, in futuro, esiti interessanti. Alla seconda, invece, grazie all’iconografia riconosciuta dagli specialisti, i curatori della mostra Luigi La Rocca, Massimo Osanna e Luana Toniolo hanno risposto attribuendo a questi vasi una provenienza daunia. Una subregione a nord della Puglia, la Daunia, costituitasi a seguito della frantumazione culturale dell’«ethnos» indigeno, iapigio, dopo l’insediamento dei coloni greci nella città di Taranto (VIII secolo a.C.).
Principi dauni, quindi, i probabili destinatari di questi oggetti preziosi, corredi sontuosi di camere sepolcrali per tombe importanti, monumentali. Sicuramente i vasi, quasi tutti di produzione apula (solo due sono attici e uno è attribuito ad area lucana), provenivano da sepolture diverse e anche se manca qualunque dato relativo ai contesti di rinvenimento si pensa al centro di Arpi, o all’areale limitrofo, come possibile luogo dello scavo furtivo, probabilmente avvenuto intorno agli anni Settanta-Ottanta del Novecento. Tra piatti decorati, «skyphoi», anfore, una «kylix» e un’«hydria», si distinguono cinque crateri di grandi dimensioni, opera di due tra le più note «celebrità» della ceramografia apula di IV secolo a.C.: il Pittore di Dario e il Pittore dell’Oltretomba.
Luana Toniolo, direttrice del Museo di Villa Giulia, sottolinea la presenza iconografica non casuale del mito dei cavalli di Reso, rubati da Odisseo e Diomede, divenuto poi quest’ultimo l’eroe fondatore dei Dauni. La storia dei candidi cavalli di Reso, il re tracio corso in aiuto dei Troiani e ucciso durante il sonno in una strage spietata, è una delle immagini più emblematiche dell’astuzia dei due eroi greci che valse loro un posto nell’inferno dantesco, condannati per sempre ad ardere in una fiamma a due tizzoni (Inferno XXVI, 49-120). Questo mito, che ebbe particolare fortuna nell’area a nord della Puglia, ritorna anche su una notevole situla apula attribuita al Pittore di Licurgo, oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli e rinvenuta nel maggio del 1836 a Ruvo di Puglia, in uno dei primi cantieri di scavi regi.
Miti e storie dall’Iliade per questi preziosi reperti che «in un viaggio a tappe di ritorno verso il luogo d’origine», come ha sottolineato Luigi La Rocca, dopo Villa Giulia saranno esposti nel Castello Svevo di Bari e poi raggiungeranno la loro sede definitiva nel costituendo «museo della legalità» di Palazzo Filiasi, a Foggia. Un museo dove saranno racchiuse tutte le opere recuperate grazie a questa eccezionale sinergia, dichiara Massimo Osanna, «frutto di un significativo lavoro delle Procure, dei Carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale e degli uffici del Ministero della Cultura».