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Gianni Dova

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Gianni Dova

Vita nova per Dova fuori moda

Il Criptico d’arte • Nella sede milanese di Tornabuoni le opere dell’artista spazialista che con Crippa e Peverelli è stato a lungo dimenticato

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Flaminio Gualdoni

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«Crippa Dova Peverelli, il consesso dei cervelli, Peverelli Crippa Dova la pittura si rinnova» era una tiritera scherzosa che negli anni ’50 risuonava al Bar Giamaica e dintorni, a Milano, per segnalare come la generazione fecondata dallo Spazialismo di Lucio Fontana fosse una compagine di prima qualità. Poi, more italico, ai tre pittori è toccato un lungo oblio, un appannamento critico che non era generato da disistima manifesta, ma era alimentato solo da un’indifferenza sempre più tenace.

Gianni Dova (1925-91), in particolare, del trio è stato il più lucido nell’inoltrarsi sulla via di un surrealismo nutrito di accelerazioni coloristiche e di invenzioni visive complesse (cfr. il catalogo ragionato delle opere in tre volumi di Enrico Crispolti, Allemandi 2020, Ndr). Ora, come togliendolo da un lungo letargo, una galleria primaria, Tornabuoni, ne ripropone il lavoro («Gianni Dova. Vita reale e magia cromatica», fino al 16 novembre) nella sua sede milanese, aperta giusto a un passo dal luogo dov’era la storica galleria del Naviglio del geniale Carlo Cardazzo che dello Spazialismo fu la culla e la fucina. Era tempo, finalmente: mi immagino che un paio di generazioni di artisti e curatori arrembanti non sapessero sino ad oggi neppure chi era Dova. Eppure è stato un grande pittore, cui la distanza critica (è morto nel 1991) offre ormai la misura di un giudizio storico. 

Come Peverelli, diventato presto di fatto francese, Dova aveva due riferimenti stabili e forti nella sua arte, Max Ernst e Wifredo Lam: ma trattandoli da subito come interlocutori e non come modelli, proponendo un’evoluzione originale, e talora felicemente arrischiata, delle loro tematiche, e confidando nella pittura a smalto, una sorta di laccatura straniante che conduceva a una definizione d’immagine radicata largamente in esempi fiamminghi. Con il passare degli anni, la sua visionarietà si è poggiata sempre più apertamente sull’idea di naturale, ma nutrendola di un senso intimamente metamorfico e su sovratoni cromatici tesi sino a un diapason sorprendente, che ne ha fatto un unicum, oltre che definirne la personalità a tutto tondo. Di fatto Dova però si era posto largamente fuori moda, e non appartenere al mainstream da noi, cui tocca vivere in un ambiente artistico troppo piccolo e troppo gracile e condizionabile, questa scelta si paga assai più che altrove. Non c’era più posto per un artista come Dova in un ambito che non è il mare dell’arte, ma un catino. Lo si è lasciato in un canto ad ammuffire, ma per fortuna ora ci può essere ripresentato come un artista «come nuovo». Speriamo che sia la volta buona.

«Scultura all’aria aperta» (1965) di Gianni Dova

Flaminio Gualdoni, 07 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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