Oggi è considerato uno dei massimi esponenti della Nuova Oggettività austriaca e un precursore del Realismo Magico. Come molti altri artisti della sua generazione, Rudolf Wacker legò fortemente la propria attività all’àmbito germanico. Nativo di Bregenz (1893), si trasferì presto a Vienna sperando di poter entrare nell’Accademia di Belle Arti. Non riuscendo nell’intento, ripiegò sulla Scuola d’Arte di Weimar, dove ebbe come maestri fra l’altro Albin Egger-Lienz e l’illustratore Walter Klemmt. La cesura della Prima guerra mondiale lo vide prigioniero dei russi e deportato in Siberia, dove fu detenuto per 5 anni: un’esperienza traumatica che riversò in particolare nei suoi diari. Negli anni Venti scelse per quattro anni Berlino, centro focale delle avanguardie germaniche, prima di tornare in patria e sostanzialmente stabilirsi nella regione natia del Vorarlberg. A lungo sostenuto finanziariamente dai genitori, Wacker arrivò relativamente tardi all’affermazione: solo nel 1928 un museo acquistò un suo dipinto e nel 1934 partecipò alla Biennale di Venezia. Ma già il nazismo era diventato pervasivo e Wacker venne considerato comunista e sovversivo, paradossalmente anche per via della sua prigionia in Russia. Pochi mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, nell’autunno del 1938 avvenne la prima perquisizione della sua casa da parte della Gestapo. Alla seconda, nel 1939, ebbe un fatale attacco di cuore e morì all’età di 46 anni.
La mostra «Magia e abissi della realtà», che il Leopold Museum gli dedica dal 30 ottobre al 16 febbraio 2025, è una riscoperta e un omaggio sulla scia della precedente, notevole esposizione dedicata alla Nuova Oggettività in Germania: «L’ultima mostra viennese sulla produzione di Wacker risale al 1958, dunque a ben oltre 60 anni fa. Il Leopold Museum intende riaccendere l’attenzione sull’artista», dicono le curatrici Laura Feuerle e Marianne Hussl-Hörmann. Il periodo di massima attività di Wacker fu tra le due guerre, con la partecipazione a una cinquantina di mostre, che tuttavia non andarono di pari passo con la vendita di opere: «Negli anni Venti la sua produzione fu caratterizzata da una pittura a colori accesi, focalizzata sulla rappresentazione della realtà circostante, con paesaggi urbani, situazioni quotidiane e nudi femminili, e verso la fine del decennio i pennelli lasciarono spazio prevalentemente alla grafica, laddove l’interesse principale continuò a essere il mondo reale», proseguono le curatrici. Fra i 120 dipinti e le 60 opere di grafica esposti, rappresentativi di tutte le fasi produttive e provenienti da diverse istituzioni internazionali e da collezioni private, spicca una nutrita serie di autoritratti sia a olio sia a matita.