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Caviale e caimani

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Franco Fanelli

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«Sono stanca delle decisioni sulla mia carriera, dei vernissage nei musei e nelle gallerie, delle cene senza fine...»: è il lamento dell’artista stressata pronunciato da Marina Abramovic mentre mangia una cipolla cruda in un video esposto in questi giorni al Mucem di Marsiglia nella mostra «Food» (cfr. il servizio in questo numero di «Vernissage»). «Eppure, sembra voler dire l’autrice con quell’autolesionistico pasto, è ciò che mi tocca mandar giù se voglio fare il mio mestiere, costretto tra mille ipocrisie, cinismi e obblighi sociali». Se il messaggio è questo (e trattenendo ogni considerazione tipica di quando un benestante privilegiato e fortunato ha la faccia tosta di lamentarsi per gli inconvenienti del suo lavoro, ammesso che di inconvenienti si tratti), il video dimostra ancora più dei suoi quasi vent’anni d’età. Appartiene a un’altra, ormai remota epoca che ancora recava le tracce del mito romantico, magari dell’artista-albatro di Baudelaire, l’uccello dotato di un volo possente ma miseramente sgraziato quand’è costretto a scendere a terra: catturato dai marinai, ne subisce le angherie e gli scherni. C’è da dire che da sempre l’eterna Abramovic non lesina nelle sue opere insopportabili razioni di retorica, neoromanticismo e autocommiserazione; ma all’epoca del video «Onion», in effetti, l’artista di successo (e l’Abramovic lo è) non era ancora (o non era soltanto) l’analogo di una rock star, di un supponente cicisbeo e di un pragmatico imprenditore di se stesso, capace di controllare e manovrare tutti i meccanismi economici che ne regolano il successo. Una delle prove più evidenti di questo status è il sempre più frequente impegno degli artisti nel ruolo di guest curator. Lo si è visto recentemente a Torino, dove la mostra collaterale ad Artissima, curata da Maurizio Cattelan, ha ottenuto l’effetto sperato, ossia calamitare l’attenzione del pubblico e dei media nel weekend fieristico. Non che l’artista-curatore sia una novità, come dimostra il precoce esempio di Courbet (cfr. articolo nella sezione «Mostre»). Ma al di là degli incarichi e dei ruoli ufficialmente dichiarati, ci sarebbero un paio di considerazioni da fare. La prima: tutti sanno che il potere decisionale sulla composizione delle mostre, tradizionalmente di competenza del curatore, è sempre stato regolarmente esercitato dagli artisti in grado di poterlo fare, dettando condizioni, spesso, anche sulla presenza o meno di determinati colleghi nelle mostre di gruppo. La seconda: il prestarsi come curatore «in chiaro», nel nome di scelte e allestimenti originali e desueti perché «d’artista», non è che un efficacissimo atto promozionale buono per la bigliettazione e il ritorno mediatico e per il rafforzamento di una propria cricca di colleghi, critici e collezionisti fidati e generalmente legati allo stesso canale mercantile; in ogno caso,  è evidente che anche l’artista-curatore non potrà infrangere le regole di scuderia, esattamente come chi il curatore lo fa di professione. In realtà l’artista-creatore di mostre (che, ovviamente, affida il lavoro oscuro e più pesante richiesto da quel ruolo ai galoppini di turno) è solo una delle figure più modaiole, ipocrite, spudorate e arroganti di un sistema in cui, rispetto alla data del video di Marina Abramovic, i «creatori» milionari, strapotenti e self-manager hanno ulteriormemte rafforzato, potenziato e perfezionato le loro strategie economiche. Cipolle e albatri, da tempo, hanno ceduto il passo a caviale e caimani.

Franco Fanelli, 12 gennaio 2015 | © Riproduzione riservata

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Caviale e caimani | Franco Fanelli

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