Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliIl Futurismo nasceva quasi 115 anni fa, tra polemiche che non sono mai morte ma si sono solo trasformate. Sembra quasi ineluttabile che rivoluzione e provocazione marcino di pari passo nella storia del grande movimento italiano d’avanguardia, da quella mattina del 20 febbraio 1909 in cui i lettori di «Le Figaro» lessero sbigottiti l’esplosivo «Manifesto del Futurismo», firmato da Filippo Tommaso Marinetti, «caffeina d’Europa» e vate di un rinnovamento artistico culturale lanciato come un treno in corsa verso il futuro. Quel futuro è ora anche il passato di infinite battaglie che hanno influenzato, anche oltre il Futurismo, l’arte e la cultura italiana ed europea.
Molto di quanto prodotto nel secolo, e fino a oggi, trova infatti radice nei linguaggi e negli assunti di rottura proposti dai futuristi nella loro prima fase «eroica», tra il 1909 e il 1915, e poi nella stagione del Secondo Futurismo, dalla fine della Prima guerra mondiale alla morte del guru Marinetti, nel 1944. Non solo pittura, scultura e architettura vennero rivoluzionati, ma anche letteratura, musica, teatro, grafica pubblicitaria, fotografia, cinema, moda, arredo, editoria e finanche l’ambito culinario. Era la vita intera a essere investita dal vento di un’arte nuova, per un’«artevita» (neologismo futurista) che progettava, nel segno di opere d’arte totale, la «ricostruzione futurista dell’universo» (come recita il titolo di un manifesto di Balla e Depero del 1915). E la vita è anche società e politica.
Damnatio memoriae e nuovi studi
Molti futuristi, che nascono perlopiù socialisti, proprio come Mussolini, aderiscono al fascismo e se ne fanno promotori estetici. Ciò ha determinato nel secondo dopoguerra una vera «damnatio memoriae» dell’avanguardia futurista, considerata allora una retroguardia retrograda di un’ideologia condannata e da rimuovere.
Di qui, però, nasce in Italia anche una nuova stagione degli studi sul Futurismo, promossa da storici dell’arte (peraltro in gran parte dichiaratamente «di sinistra»), impegnati, oltre che nell’accurato scandaglio mediante libri, saggi e mostre della grande messe d’arte futurista, nella liberazione dalla pregiudiziale antifascista del movimento. Pionieri, a principiare dalla prima metà degli anni Cinquanta, sono Maurizio Calvesi ed Enrico Crispolti. Continuatori sono Giovanni Lista («In termini di ideologia il Futurismo è l’antitesi del fascismo», sostiene), Mario Verdone, Ester Coen, Fabio Benzi, Claudia Salaris, Pablo Echaurren, Massimo Duranti, Giorgio Di Genova e Daniela Fonti, solo per citare i maggiori.
Ma roccioso, il pregiudizio, è soprattutto all’estero. Futurismo, per lo più in Francia, è sinonimo di fascismo. A rompere la breccia anche fuori dai patri confini è la grande mostra curata da Pontus Hulten nel 1986 a Palazzo Grassi a Venezia, «Futurismo & Futurismi», mentre in Italia tuttora memorabile è «Ricostruzione futurista dell’universo» (1980), curata da Crispolti alla Mole Antonelliana di Torino. Le molte mostre nel mondo in occasione del centenario del 2009 contribuiscono a loro volta a una sempre più corretta collocazione del movimento marinettiano nella costellazione delle grandi avanguardie europee, ma la definitiva acquisizione di una nozione di Futurismo liberato per sempre delle ombre littorie avviene solo nel 2014, con la mostra «Italian Futurism 1909-1944. Reconstructing the universe» al Guggenheim Museum di New York.
L’interesse rinnovato della politica
E ora? Ora la questione politica del Futurismo torna a farsi politica. È il Governo di destra che sta promuovendo una nuova fase di attenzione sull’avanguardia nata prima del fascismo, divenuta fascista, e poi tornata futurista e basta. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, già a ottobre 2022, annunciava il progetto di due grandi mostre sull’identità italiana: «Una su Umberto Boccioni e il Futurismo. L’altra sul Rinascimento. Questi due movimenti storici e culturali sono stati quelli che, ognuno a modo suo, hanno proiettato l’Italia nel mondo». Mai un esponente di un Governo italiano era stato così esplicito sulle scelte politico-culturali del Paese. E mai si sono contate, come nell’anno in corso, così tante mostre sul Futurismo in musei pubblici e gallerie private, per non dire della grande quantità di opere proposte in fiere e aste. È un revival recente, o è solo la fase estrema di un’onda partita da molto lontano? È il trionfo del Futurismo, o il Futurismo sta tornando politico?
Fatto sta che la mostra, curata da Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara nel 2022 al Mart di Rovereto, su Julius Evola (pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola, filosofo ma anche pittore, considerato la figura intellettuale più rilevante della destra radicale italiana) sembra aver aperto le danze a una sequenza di esposizioni che, nel 2023, hanno riportato il Futurismo definitivamente in ballo: da Palazzo Zabarella a Padova a Palazzo Lanfranchi di Matera, da Palazzo delle Paure a Lecco alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo (Pr), dal Museo del Novecento di Milano a Palazzo Medici Riccardi di Firenze, solo per citare le maggiori. A Roma, mostre futuriste hanno trovato ospitalità nella Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, alla Galleria d’arte moderna e al MaXXI (che ha anche curato l’apertura di Casa Balla).
L’apice sarà tuttavia toccato con la grande mostra «Il tempo del Futurismo», programmata per ottobre 2024 alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea. La curerà Gabriele Simongini (docente presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e critico del quotidiano «Il Tempo»), con la collaborazione di Alberto Dambruoso. È la mostra annunciata da Gennaro Sangiuliano nell’autunno 2022, mostra nella quale il ministro della Cultura individua una delle chiavi di volta del suo operato. Per il momento ha però preferito non anticipare informazioni e dettagli. Fabio Benzi, curatore della mostra «Futurism and Europe. The Aesthetics of a New World» (allestita fino allo scorso settembre presso il Museo Kröller-Müller di Otterlo in Olanda), è consapevole del «peso che nel recente revival futurista hanno le mire culturali espresse dal Governo», ma al contempo è certo del fatto che «gli studiosi non vedono questo nuovo interesse con sguardo politico, ma dal punto di vista storico».
Concorda Claudia Salaris, altra importante studiosa del Futurismo: «Il Futurismo è patrimonio dell’umanità. Appartiene a tutti e non solo all’Italia, essendo un fenomeno non esclusivamente nazionale ma cosmopolita. Prima avanguardia artistica organizzata del Novecento, ha inventato il codice di comportamento adottato dalle successive avanguardie storiche e dalle neoavanguardie. Il Futurismo appartiene, dunque, alla storia e non può essere ridotto alle diatribe politiche e giornalistiche di oggi. Coloro che affermano che il Futurismo vada recuperato perché misconosciuto per ragioni ideologiche commettono un grave errore di valutazione, condizionato dal pregiudizio. Infatti, esiste una enorme quantità di libri e cataloghi di mostre sul movimento di Filippo Tommaso Marinetti che ne documenta la fortuna critica. Quindi, sostenere che il Futurismo attenda ancora una rivalutazione è un’affermazione infondata».
Per lo storico dell’arte Flaminio Gualdoni «non c’è niente di male se uno studioso del Futurismo approfitta del clima favorevole. Se hai un’occasione per parlare di ciò a cui hai dedicato una vita, la sfrutti. Durante la mia direzione dei Musei di Varese mi capitò che un assessore leghista mi chiedesse di curare una mostra sui Celti. Ecco, gli risposi che i celti non c’entravano nulla con l’area di cui mi occupavo, e non se ne fece niente, ma il Futurismo è tutta l’Italia, è la sua cultura, la sua arte». E l’arte non è in sé politica, l’arte è arte.
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Il mercato del Futurismo: un interesse storico, non politico
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