Anna Somers Cocks
Leggi i suoi articoliA che cosa serve un museo? È solo un contenitore pieno di cose preziose da ammirare o è anche un luogo di idee, di apprendimento, di illuminazione nel senso più ampio del termine? E a chi è rivolto? Ai semplici curiosi? A chi tra noi conosce già le cose preziose? O a tutti, indipendentemente dal livello di istruzione e di reddito? Le polemiche che si sono scatenate nei media il mese scorso per l’annuncio che gli Uffizi avrebbero aumentato il prezzo del biglietto avrebbero dovuto far sorgere queste domande.
I media, che amano gli incontri di boxe, sono stati felici di avere il ministro Sangiuliano, giornalista, in un angolo e Vittorio Sgarbi, sottosegretario, storico dell’arte e star dei media, nell’altro. Sangiuliano, che sembra credere che i musei siano come il whisky, che la gente pensa di gustare di più quanto più lo ha pagato, è favorevole all’aumento e ha dichiarato durante un dibattito televisivo a «Porta a Porta»: «Tenere i musei gratis, a parte che non regge sul piano economico poi deprezza il valore delle opere».
Sgarbi invece ritiene che i musei pubblici debbano essere gratuiti: «I musei devono essere per i cittadini come le biblioteche, dove uno entra, prende un libro, ma non è che paga... Avendo noi il problema di rieducare gli italiani, credo che il ministro non possa non convenire con me. La questione non deve essere un fatto di costi ma un fatto democratico». Sgarbi si è posto le domande giuste e troverebbe un sostegno in Neil MacGregor, ex direttore del British Museum, egli stesso personaggio mediatico ed eminenza grigia del mondo museale internazionale.
MacGregor fa un parallelo con i parchi, che sono per tutti; i musei non possono sperare di coinvolgere i meno abbienti e i non istruiti, dice, se non sono gratuiti e se i musei stessi non cercano di coinvolgerli. In altre parole, i musei hanno uno scopo sociale, un obbligo nei confronti del pubblico, che è preso molto sul serio nel Regno Unito dove c’è una lunga tradizione di gratuità dei musei. Il British è aperto a tutti fin dalla sua fondazione nel 1753, così come la National Gallery e il Victoria and Albert.
Per un breve periodo, dal 1997 al 2001, un Governo conservatore li aveva obbligati a far pagare gli ingressi, il che ha portato a un calo drastico dei visitatori (-50% al V&A) che è stato considerato sia socialmente dannoso che economicamente insensato, dal momento che i costi di gestione dovevano essere ripartiti tra un numero inferiore di visitatori. La decisione venne annullata e i numeri sono risaliti in media del 70%. Ora non c’è politico, né di destra né di sinistra, che metta in discussione l’ingresso gratuito.
Ciò che rende finanziariamente sostenibili i musei del Regno Unito è la loro quasi totale libertà di azione. Anche senza la vendita dei biglietti, la maggior parte dei principali musei statali raccolgono da soli più della metà dei propri costi di gestione. Il V&A, ad esempio, con una spesa annuale di 93,6 milioni di sterline, ha ricevuto 40,7 milioni di sterline dal Governo, ma ha ricavato il resto dalle entrate commerciali (negozio, pubblicazioni, ristorante, biglietti d’ingresso alle mostre speciali...), dai soci, dalle donazioni, dalle sponsorizzazioni e dai lasciti.
Riescono in tutto ciò perché, a differenza dei musei italiani, non sono incatenati da leggi e burocrazia. I loro unici obblighi statutari sono di conservare e curare le collezioni e di garantire la loro fruizione da parte del pubblico. Non sono gestiti, nemmeno indirettamente, dallo Stato, ma da un direttore che risponde al suo Consiglio di amministrazione. Questo li rende flessibili, intraprendenti e reattivi al pubblico e allo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Hanno libertà di assumere e licenziare secondo necessità, di avviare operazioni commerciali, di cercare donatori e sponsor, di creare e affittare mostre, di agire come consulenti, ecc.
Tutto ciò significa che devono essere competenti e competitivi come qualsiasi impresa commerciale, pur non essendo a scopo di lucro, e non dimenticare mai che il loro scopo morale è di servire ed educare. Lo stimolo cruciale è che ogni centesimo raccolto viene trattenuto, a differenza per esempio degli Uffizi, che devono restituire allo Stato il 25% di tutti gli introiti (per quella parte di costi sostenuti dallo Stato). Non c’è da stupirsi che debbano aumentare il prezzo dei biglietti perche oltre il 90% dei costi di gestione (34 milioni di euro nel 2019) deriva dalla vendita dei biglietti, il resto dai diritti e dalle riproduzioni, dall’affitto dei locali e da alcune donazioni.
Eppure, la legge italiana vieta la creazione di un proprio fondo di dotazione, che darebbe a ogni museo stabilità finanziaria nel corso degli anni. È necessaria una deregolamentazione dei musei italiani ribadendo, però, il riconoscimento del loro ruolo educativo e sociale. Occorre quindi sfatare il pericoloso equivoco che alberga ancora nella mente di alcuni politici italiani: un museo che serve seriamente il suo pubblico, con conoscenza, creatività e passione, non può essere un’impresa per fare soldi.
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