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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliNato in Gran Bretagna 63 anni fa da genitori emigrati dalla Jugoslavia, Deyan Sudjic, dal 2006 direttore del Design Museum di Londra, è uno dei più acuti analisti dei cambiamenti che trasformano il mondo. È stato critico di architettura del quotidiano britannico «The Observer», direttore della rivista «Domus» e curatore della Biennale di Architettura di Venezia nel 2002. Autore di saggi come Architettura e potere (Laterza) e di una biografia di Norman Foster, ha da poco pubblicato un dizionario della modernità, B is for Bauhaus, che in realtà è un’autobiografia.
I suoi genitori hanno avuto sei nazionalità e questo l’ha portata a considerare l’identità come qualcosa di provvisorio. Che cosa ci fa sentire che apparteniamo a un luogo?
Le città hanno identità più accoglienti delle nazioni. Si tiene a mente la mappa della città in cui si è cresciuti e poi la si usa per confrontarla col mondo. In qualunque posto mi trovi cerco di scoprire qual è l’equivalente dell’est, del nord o del sud di Londra.
Londra è cambiata radicalmente da quando lei era bambino.
Una città non è un’opera d’arte, progredisce solo se permette il cambiamento. Il pericolo è quando non è più capace di reinventarsi, com’è successo a Detroit. Anno dopo anno dalle finestre del Design Museum vedo un’eruzione di grattacieli indistinti. Quindici anni fa l’idea di costruirne uno nel centro di Londra sarebbe stata ridicola.
Un edificio dopo l’altro, i miliardari del Qatar si stanno comprando la sua città.
Non ho niente contro di loro. Mi preoccupano di più certi russi. A Londra però, e in altre città, si stanno vendendo edifici in attività. Ci sono edifici in cui non vive nessuno perché sono stati comprati come se fossero lingotti d’oro da tenere nella cassetta di sicurezza di una banca. Questo crea strade e quartieri morti, fa aumentare il prezzo degli appartamenti circostanti e finisce per soffocare quelle qualità che avevano attirato l’investimento iniziale. Da un punto di vista pratico non ha senso. Ma mi sono sempre chiesto se gli urbanisti potessero far cambiare davvero le città o se avessero solo la facoltà di predire quel che sarebbe successo. È come indovinare se pioverà o fare in modo che piova.
Come si misura il successo di una città?
La città di maggior successo è quella che ha il maggior numero di abitanti con la maggior possibilità di scelta. In Inghilterra abbiamo inventato la rivoluzione industriale, abbiamo creato città industriali e l’élite ha deciso che voleva vivere in campagna, anzi, nel paesaggio. C’è il mito dell’autenticità della vita rurale, ma io ho sempre visto l’altra faccia della medaglia. I miei nonni venivano da un paesino dell’ex Jugoslavia dove se eri diverso dal tuo vicino avevi dei problemi. Non era un posto per gay, ad esempio. Una città modello ti permette di essere sincero quando vuoi esserlo.
Il XX secolo è stato il secolo delle grandi migrazioni?
Tutti i secoli lo sono. La differenza è che adesso sono reversibili. Quando i miei nonni emigrarono in America se andava bene ritornavano ogni 10 anni. Le cose sono cambiate. Ora la transizione non permea così tanto le persone, non le trasforma completamente.
Per illustrare l’importanza del design nella trasformazione della vita lei ricorda che il tetrabrik ha fatto sì che i giapponesi abbiano cominciato poco tempo fa a bere latte, a partire dagli anni Settanta. Il passaggio dall’analogico al digitale sta trasformando i nostri rituali quotidiani. Che cosa vedremo cambiare?
Se fossi uno studente di Medicina mi sentirei nervoso. La digitalizzazione e la robotica arriveranno lì. Il mio cardiologo ha cambiato lavoro. Ora fa il dermatologo. Quando gli ho chiesto il perché mi ha risposto che la medicina, nella sua ormai ex specializzazione, era diventata qualcosa di talmente meccanico che il contatto col paziente stava scomparendo.
Come vede il futuro dei libri?
Le vendite in libreria stanno crollando, e non è un buon segno. Mia figlia, che ha 25 anni, si lamenta di essere nata troppo tardi o troppo presto. Non è una nativa digitale e ci considera dei privilegiati perché, perlomeno, abbiamo conosciuto bene il mondo analogico.
Ha un lettore di ebook?
Ho comprato un Kindle, ma l’ho usato solo due volte. Nella nostra epoca gli oggetti appaiono e scompaiono velocemente. La nostra cultura è peritura, però se non abbiamo bisogno di scrivere arriverà un momento in cui non avremo bisogno di leggere. E così la tecnologia ci potrebbe riportare a una cultura prealfabetizzata. Non so se accadrà, ma è interessante pensare che potrebbe succedere.
Ha paura del mondo digitale?
Mi sembra estremamente narcisista raccontare quel che si sta facendo in qualsiasi momento. Centoquaranta caratteri è la lunghezza dei messaggi che la gente scrive nei bagni pubblici. Twitter poi può essere una parete per il linciaggio. Non lo trovo necessario. Ma magari sono troppo vecchio io.
In un suo libro, «Il linguaggio delle cose», lei descrive in che modo l’industria della moda ha esportato la sua accelerata modalità di produzione in altri ambiti, come l’editoria o il design, creando stagioni e collezioni di rapido consumo.
Il mondo è insaziabile. La digitalizzazione ci porta a cambiare il cellulare perché ne spuntano di più piccoli e intelligenti. Questi aggeggi hanno decretato la fine della pellicola fotografica, delle macchine fotografiche, dei negozi dove si compravano le macchine fotografiche, delle fabbriche dove si producevano, del sistema di distribuzione e stanno annientando le librerie, le tipografie. Ma in questa progressiva smaterializzazione forse esiste un consumo libero da colpe.
Lei si sente libero allo stesso modo quando Norman Foster le commissiona la sua biografia e quando descrive Rem Koolhaas come «Savonarola vestito Prada»?
Col passare degli anni s’intrecciano dei rapporti personali che indubbiamente trasformano la dinamica della critica. Certo, si può provare a non avere amici.
Di Koolhaas lei scrive nel suo ultimo libro che «accetta incarichi da parte di quel potere che tanto critica affermando che in tal modo opera una sovversione dal di dentro. Così facendo, è diventato parte proprio di quanto con tanta passione denuncia». E ciononostante continua a essere lui il gran referente architettonico. Perché?
Perché ha un cervello impressionante. E carisma. Quando si attraversa un periodo storico di incertezze, si presta ascolto a chi sembra avere delle certezze. Uno studio come il suo prospera perché attrae una nuova generazione convinta di sapere come sarà il futuro. Quella gioventù apporta nuova energia allo studio. Così il sistema si retroalimenta come un circolo vizioso.
Da dove sono nate le archistar?
Negli anni Settanta la fede nell’architettura si è sgretolata. L’utopia promessa dalla modernità aveva prodotto tuguri. E questo ha distrutto la fiducia degli e negli architetti. Da figure eroiche si sono tramutati in capri espiatori. Una situazione che non poteva durare in eterno e difatti la generazione successiva ha alzato l’autostima. Il classico mezzo per farsi conoscere è trasformarsi in un personaggio. Lord Byron nella prima edizione delle sue poesie si fece incidere un ritratto ridicolo, in abiti turchi. Creò intorno a sé un mito. Pensi a Napoleone... È una tecnica. L’autorità uno se la crea mettendoci la faccia. Suppongo che gli architetti abbiano scoperto questa tecnica.
Come sono i suoi gusti in materia di architettura?
Sono molto conservatore.
Però ha chiesto a Jan Kaplický di Future Systems di disegnarle l’appartamento con mobili gonfiabili e acciaio inossidabile.
Allora (era il 1988) pensavo di avere una certa responsabilità nei confronti di ciò che difendevo.
Che cosa è riuscito a prevedere quando era il critico dell’«Observer»?
Ho analizzato precocemente e con scetticismo il fenomeno Guggenheim Bilbao, gli edifici spettacolo. A far trionfare le archistar è stato il fatto che la loro fama serviva a far scegliere gente senza conoscenze né criterio.
L’ex direttore del Pompidou, Alfred Pacquement, ha dichiarato che un museo non è una fabbrica di Coca-Cola. Poco dopo però il suo stesso centro ha cominciato ad avere delle succursali. Il futuro dei grandi musei è nel franchising?
Non funzionano benissimo. Il futuro è nella cooperazione. La vecchia idea di costituire la collezione più grande e più bella non ha più senso. Lo ha invece l’idea di condividere. È più civile.
Lei riferisce quanto è costato a Giorgio Armani esporre al Guggenheim di New York: 15 milioni di dollari. Entra nei musei chi paga di più?
Il Design Museum funziona con pochissimi fondi pubblici. Viviamo grazie gli introiti dei biglietti d’ingresso, della vendita di oggetti e della caffetteria. O permettendo alla gente di affittare i locali per sposarsi, se è quello che vogliono. Stiamo preparando una mostra sulla Camper che aprirà quest’estate. Hanno saputo scommettere su giovani designer, e le scarpe sono un modo diretto per parlare di design al pubblico. È pubblicità per la Camper? Se fosse solo questo, staremmo disprezzando il futuro del nostro museo.
Che cosa può aiutare a capire le città?
Bisogna essere curiosi e camminare. Anche se il critico Reyner Banham una volta ha detto di aver imparato a guidare per poter leggere Los Angeles in versione originale.
È il momento dell’urbanistica di base, di imparare da ciò che è spontaneo, informale e non pianificato?
Le due cose sono necessarie. I tuguri di Bombay sono più sostenibili di molte nostre città. Come sistemarli per renderli più umani? Uno degli interventi consiste nell’aumentare i bagni pubblici per ottenere un livello di dignità che non esiste. Forse piccoli interventi possono renderli più civili. La mappa stradale di Tokyo è talmente densa che se fosse in India diventerebbe un tugurio. Non è solo l’urbanistica a «decidere» una città.
I tuguri sono oggi più veri delle città globalizzate?
Non condivido il pessimismo dello storico Mike Davis (autore di Il pianeta degli slum, Feltrinelli 2006, Ndr). «Tugurio» era una parola che ci faceva paura, ma nasconde molte realtà. Alcuni sono delle minacce per la vita, altri hanno lo splendore della gente che sta prendendo il comando della propria vita e la sta migliorando. Potremmo imparare da questo.
Perché i designer che ideano automobili, aerei o computer, non sono noti?
Non tutti hanno bisogno di scrivere un manifesto. C’è chi preferisce concentrarsi sulla soluzione di problemi anziché brillare in società.
Di che cosa ha bisogno un oggetto per durare?
Noi sviluppiamo delle relazioni con i nostri oggetti. Ci suggeriscono e ci ricordano delle cose. Ci raccontano delle storie su chi li ha fatti.
Il mondo digitale sta cambiando anche questo. Chi ci parlerà in futuro delle persone che hanno fatto le cose?
Il mondo digitale rende la gente immortale. Ogni cosa detta in pubblico resta registrata e potrebbe durare per sempre.

Deyan Sudjic
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